E’ un vero e proprio j’accuse contro le politiche di austerity il report di Confcommercio e CER (Centro Europa Ricerche) presentato al Forum di Cernobbio del 21-22 marzo, che analizza “la morsa della pressione fiscale durante la crisi” mettendo in luce un elemento rilevante: l’aumento indiscriminato delle tasse negli ultimi 5 anni, in pratica, è stato tre volte superiore a quanto la recessione avrebbe giustificato. E il contributo eccessivo delle tasse locali è il segnale di un federalismo fiscale che non ha funzionato a dovere, caratterizzato da troppe disparità anche nelle aliquote IRPEF e IRAP. Per non parlare dell’IMU, che nel 2014 torna sulla prima casa con la TASI e rischia di rappresentare un nuovo appensatimento.
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Le tasse in rapporto alla crisi
Secondo l’analisi, la crisi avrebbe giustificato un aumento della pressione fiscale intorno allo 0,4% annuo, cifra largamente superata: analizzando la sola imposizione sui redditi, c’è stato un aumento medio annuo dell’1,4%, mentre considerando anche la componente patrimoniale (fra cui l’IMU), l’incremento medio annuo è stato dell’1,6%. In parole semplici, l’aumento della pressione fiscale è stato tre volte superiore a quanto compatibile con le esigenze imposte dalla crisi. In tutto, l’aumento della tasse a fine 2013 è aumentato dell’8,3%, escludendo la tassazione patrimoniale, e del 10% comprendendola. La recessione del PIL avrebbe giustificato un aumento non superiore al 2,5%. Risultato: una perdita di reddito disponibile pari a 10 miliardi l’anno.
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Non solo: nel quinquennio esaminato è aumentata anche la tassazione indiretta (ad esempio l’IVA), che ha provocato un aumento dei prezzi dell’1,7%, facendo salire l’inflazione all’11,6%. Risultato: erosione del potere d’acquisto per 11 miliardi di euro. E anche qui, l’aumento delle imposte spiega un terzo della diminuzione dei consumi, perché la leva fiscale è stata usata senza tenere conto delle esigenze di rilancio, penalizzando il mercato interno.
Federalismo fiscale
A fine 2012 il prelievo locale era superiore del 5,6% rispetto al 2008 e addirittura del 13% rispetto al 2009. La tassazione riferita alle amministrazioni centrali è aumentata del 3,8%. In genere, l’aumento delle tasse locali è un fenomeno di lungo periodo: dal 1990 (quasi 25 anni fa) il peso del fisco locale è salito dal 2,1% al 7% del Pil. Non solo: la dinamica crescente è generale, ma si accompagna a una serie di rilevanti differenze territoriali. In molti casi, si legge nel report, i livelli di tassazione sono più alti dove c’è una base imponibile più bassa e una situazione finanziaria critica dei singoli Enti. In pratica, la tassazione viene spinta verso l’alto proprio nei territori meno sviluppati. Ad esempio, in materia di aliquote IRPEF regionali, la media nazionale è pari all’1,5%, ma ci sono regioni (come Molise, Campania e Calabria) al 2%, e altre (Trento, sardegna, Bolzano) dove invece è sintorno o anche sotto all’1%. Quanto all‘IRAP, media nazionale poco sopra il 4%, con Campania, calabria e Lazio che però sono fra il 4,5 e il 5%, mentre viceversa le province di trento e Bolzano e la Val d’Aosta sono poco sopra il 3%.
Incertezza tasse locali: il caso IMU
Altro problema, la tassazione locale cresce anche in termini di grado d’incertezza. Nel giro di pochi anni si è passati dall’ICI, all’IMU, all’eliminazione dell’IMU sulla prima casa con aggiunta finale della mini IMU, e ora alla TASI. Il passaggio dall’IMU alla Tasi sembra destinato a provocare, nel 2014, un nuovo aggravio. A fronte di un gettito atteso di 3,7 miliardi, emergono fabbisogni aggiuntivi degli enti locali pari a 1,7 miliardi (1 miliardo per abbassare la precedente aliquota IMU, dove era già all’1,06% (900 comuni, di cui 55 capoluoghi di provincia), per poter applicare almeno l’1% standard della TASI, e 700 milioni per finanziare le agevolazioni sulla prima casa).
Il report presenta i comuni più o meno virtuosi, negli anni passati, in materia di aliquote su abitazioni principali e altri immobili. Per quanto riguarda la prima casa, i capoluoghi di provincia più virtuosi (restati entro lo 0,4%) sono Bari, Bergamo, Cagliari, Firenze, L’Aquila, Padova, Pescara, Reggio Calabria, Trento, Udine, Venezia. Quelli invece che hanno alzato maggiormente le aliquote (dallo 0,5 allo 0,6%): Ancona, Catania, Catanzaro, Genova, Milano, Napoli, Parma, Perugia, Potenza, Torino.
L’aliquota sugli altri immobili, fra cui quelli delle imprese, i principali capoluoghi che applicano il livello più basso (0,76%) sono Aosta, Belluno, Bolzano, Gorizia, La Spezia, L’Aquila, Olbia e Pordenone. Nelle maggior città spesso è invece stata applicata l’alqiuota massima (1,06%), come a Ancona, Bari, Bologna, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Palermo, Roma, Torino, Trieste, Venezia.
“La morsa della pressione fiscale durante la crisi”