Fra i diversi scenari che si potevano prevedere su questo referendum, si è verificato il peggiore per le sorti del Governo Renzi: una nettissima sconfitta del sì, seguita da dimissioni del premier (congelate fino all’approvazione della Legge di Stabilità). E’ uno dei tanti casi in cui, se la situazione non fosse così seria (molti commentatori parlano di crisi di governo che sintetizza in realtà una crisi sistemica), verrebbe da applaudire all’ennesimo capolavoro della politica: un voto in difesa della Costituzione si risolve in un’immediata crisi di Governo che apre una campagna elettorale che potrebbe durare un anno e mezzo in un paese privo di una legge elettorale coerente. E quelli appena descritti non sono nemmeno tutti gli elementi di un puzzle a dir poco complicato.
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Per capire gli scenari futuri, ripercorriamo innanzitutto le tappe fondamentali di questa crisi di governo.
Per quale motivo un premier si è dimesso in seguito a un voto referendario che non riguardava in alcun modo la tenuta dell’esecutivo, ma una riforma costituzionale votata dall’intero parlamento? Perché lui stesso ha fatto una campagna elettorale che ha di fatto trasformato il voto referendario in una sorta di voto di fiducia al Governo a cui sono stati chiamati tutti i cittadini.
Una specie di corto circuito istituzionale che, probabilmente, supera analoghi accadimenti internazionali a cui abbiamo assistito negli ultimi mesi, e che vengono in questi giorni e in queste ore accomunati al voto italiano in nome del concetto che a vincere, anche in Italia, sono stati i movimenti dell’antipolitica, i populismi, e via dicendo.
Il paragone forse più immediato riguarda il risultato del referendum inglese sulla Brexit: anche in quel caso, un premier si è giocato tutto su una misura che non è passata. Ma David Cameron si è dimesso su una scelta politica, molto importante, del suo governo a cui i cittadini britannici hanno detto no. Quindi, oltremanica il meccanismo è stato lineare: il governo inglese ha puntato sulla permanenza della Gran Bretagna nell’Unione, ha chiesto il parere ai cittadini, ha perso, si è dimesso. Il referendum costituzionale italiano di lineare non ha avuto proprio niente.
Non votavamo su una scelta politica del Governo ma su una Riforma della Costituzione. In effetti, la legge è stata messa a punto dal Governo, e non da una commissione parlamentare, o da un altro organo con un valore super partes. Ma è stata approvata per due volte da entrambe le Camere, seguendo l’iter previsto per le leggi costituzionali, con alcuni partiti che in aula hanno votato sì e poi hanno fatto campagna elettorale per il no. Le uniche forze politiche parlamentari completamente coerenti, sul fronte del no, sono probabilmente il Movimento 5 Stelle e la Lega Nord, che infatti vengono considerati da molti come i veri vincitori di questa tornata referendaria.
Quindi andiamo incontro alla formazione di un nuovo governo che incameri queste istanze emerse dal voto degli italiani? Non sembra proprio. In realtà, la risposta a questa domanda arriverà con l’esito delle consultazioni e la decisione di Mattarella sul prossimo mandato di Governo. Ma il clima al momento è il seguente: M5S, Lega Nord e Fratelli d’Italia sono pronte a passare all’incasso subito, chiedendo elezioni nel 2017. Tutti gli altri, quale che sia stata la posizione in campagna elettorale, vorrebbero invece un governo in carica fino al 2018.
E questo è il primo termine del problema: quanto durerà il prossimo governo? Probabilmente, dovrà avere il tempo di fare una nuova legge elettorale, richiesta su cui dimostrano disponibilità anche Lega e Movimento 5 Stelle (che però, lo ripetiamo, insistono prioritariamente sulle elezioni nel 2017). Al momento, è bene ricordarlo, abbiamo una legge elettorale, l’Italicum, valida solo per la Camera, e sulla quale comunque si attende una pronuncia della Corte Costituzionale. E un’altra legge, il Consultellum, valida per il Senato, che è il frutto di un pronunciamento della Consulta, non di un voto del parlamento (e che non è mai stata applicata).
Renzi ha passato la palla su questo fronte: le proposte sulla nuova legge elettorale spettano a chi ha vinto il referendum. Polpetta un po’ avvelenata, si è detto, che punta sulla difficoltà che indubbiamente ci sarà per approvare una qualsiasi legge elettorale nell’attuale clima politico.
Chi chiede elezioni nel 2018 insiste sul fatto che in definitiva in parlamento una maggioranza c’è, puntando su un nuovo governo sostenuto dall’attuale maggioranza, con Forza Italia che invece resta all’opposizione ma senza interesse a far cadere il Governo. I numeri sia alla Camera sia al Senato ci sono. Quello che non c’è, è un capo del Governo.
Un politico vicino a Renzi che ne prosegua la linea? Difficile trovare qualcuno pronto a spendersi in un mandato che rischia di essere vissuto come molto impopolare, e che quindi non ripagherà in termini di consenso alle prossime elezioni. Considerazione, quest’ultima, che vale anche per ipotesi di candidature politiche meno vicine ai renziani.
Un uomo delle istituzioni? Si parla del presidente Piero Grasso, ma è un’ipotesi che si fa sempre in questi casi (fra l’altro, ai già tanti problemi, si aggiungerebbe quello di dover anche eleggere un nuovo presidente del Senato, con il risultato che i prossimi mesi si perdono in nuova distribuzione di poltrone invece che in misure di interesse per il paese).
Un Governo tecnico? Qui, le ipotesi (scontate) della vigilia indicano il ministero dell’economia, Pier Carlo Padoan, e come al solito si tira fuori anche il nome del Governatore della BCE, Mario Draghi (con un po’ di malizia, si può dire che in questo modo il nuovo valzer di poltrone avrà addirittura respiro europeo).
Non si esclude nemmeno un Renzi bis, che però al momento si scontra con le dichiarazioni del premier, che ha dato dimissioni senza se e senza ma. Il tono delle dimissioni (ho perso io, non la campagna per il sì), lascia aperti gli spazi politici a un successore che ne prosegua la linea. Le prime reazioni che arrivano dal mondo delle imprese, si limitano a chiedere una soluzione che assicuri la crescita del paese. La certezza è la seguente: senza nuova legge elettorale, nessuna forza politica intende andare al voto.
Qui però intervengono i margini che a questo punto ha Mattarella. Che ha chiesto a Renzi di rimanere per votare la manovra economica, e poi sciogliere le Camere.
Il Capo dello Stato, in primissima battuta, ha subito sottolineato la presa d’atto dell’importanza del momento:
«L’alta affluenza al voto, registratasi nel referendum di ieri, è la testimonianza di una democrazia solida, di un Paese appassionato, capace di partecipazione attiva. L’Italia è un grande Paese con tante energie positive al suo interno. Anche per questo occorre che il clima politico, pur nella necessaria dialettica, sia improntato a serenità e rispetto reciproco. Vi sono di fronte a noi impegni e scadenze di cui le istituzioni dovranno assicurare in ogni caso il rispetto, garantendo risposte all’altezza dei problemi del momento».
Infine, due considerazioni. La prima, riguarda un altro elemento importante della crisi che si apre, ovvero la posizione del PD, partito di cui il premier è segretario, e che martedì 6 dicembre, riunisce la segreteria. La seconda, relativa ai mercati: la campagna elettorale è stata caratterizzata anche da allarmi sulla tenuta dell’economia e, più in particolare, sui rischi di una nuova crisi finanziaria. Almeno su questo fronte, le acque sembrano meno agitate del previsto, Piazza Affari ha aperto in negativo ma ha subito assorbito le perdite virando nettamente in positivo (pur con i titoli finanziari che restano al ribasso), indici al rialzo anche nel resto d’Europa, nessuna tensione sullo spread. Tendenzialmente, i mercati puntano su un Governo tecnico che resti in carica fino al 2018.