Le misure protezionistiche sono viste spesso con favore dalle piccole e medie imprese preoccupate per la concorrenza internazionale e dai politici che vorrebbero guadagnarne il consenso. Anche per questo Maganomics – l’insieme di misure di politica economica promesse da Donald Trump durante la campagna elettorale – ha parecchi sostenitori in Italia.
Il neopresidente ha annunciato tariffe del 10% su tutte le importazioni, del 25% per i beni provenienti da Canada e Messico e del 60% sui prodotti cinesi. Nelle intenzioni di Trump, i dazi servono sia a negoziare accordi più vantaggiosi con i partner commerciali, sia a promuovere l’immagine di un’amministrazione forte che antepone gli interessi dei cittadini statunitensi agli equilibri internazionali.
Ma le politiche protezionistiche tutelano davvero consumatori e lavoratori? Le guerre commerciali hanno dei vincitori e, nel caso, chi sono gli sconfitti?
Sul piano nazionale, l’effetto dei dazi è simile a quello di una combinazione di tasse sul consumo e sussidi alla produzione. I consumatori devono pagare prezzi più alti per i loro acquisti, perché i beni di importazione sono tassati e i beni prodotti nel proprio paese risentono di un aumento dei costi di produzione, che i produttori scaricano interamente sui consumatori mediante l’aumento dei prezzi. Le produzioni sono più costose nella misura in cui utilizzano energia, materie prime e, soprattutto, beni intermedi provenienti dall’estero e quindi soggetti ai dazi.
I prezzi aumentano anche perché, grazie ai dazi, i settori protetti non devono più preoccuparsi della concorrenza internazionale. Lo scudo tariffario consente alle imprese di fissare dei prezzi più alti di quelli osservati nel resto del mondo. Sotto questo punto di vista, il dazio agisce come un vero e proprio sussidio alla produzione “finanziato” dai consumatori.
Tuttavia, i vantaggi per le imprese non sono scontati e l’aumento dei prezzi non implica necessariamente un miglioramento dei profitti, né ricadute positive sui lavoratori. I precedenti storici – compresi i dazi introdotti durante la prima amministrazione Trump – mostrano che l’aumento dei costi di produzione neutralizza interamente i vantaggi derivanti dall’aumento dei prezzi. Nel lungo periodo, la situazione delle imprese si aggrava a causa della perdita di competitività. Le risorse nazionali – per esempio, i lavoratori più qualificati e i capitali finanziari – sono attratte dai settori protetti indipendentemente dalla loro efficienza, mentre i settori più promettenti tendono a impoverirsi, perché a parità di prezzo devono pagare di più i fattori di produzione– perdendo terreno sul piano nazionale e internazionale.
I danni che deriverebbero da tali dinamiche sono difficili da calcolare. Stime basate sulle conseguenze delle misure protezionistiche del 2017 suggeriscono che, se l’amministrazione Trump attuasse i dazi promessi, l’aumento dei prezzi infliggerebbe ai consumatori un costo pari a circa l’1,8 del PIL statunitense. Probabilmente si tratta di valutazioni ottimistiche, che non considerano gli ulteriori danni causati dalla perdita di competitività e dalle inevitabili rappresaglie da parte dei partner commerciali.
Il gettito fiscale generato dai dazi, invece, sarebbe incerto e legato a un insieme di fattori: le reazioni dei produttori all’aumento dei prezzi nazionali (cosiddetta elasticità dell’offerta), le reazioni dei consumatori all’aumento dei prezzi (elasticità della domanda), le strategie di adattamento dei partner commerciali, comprese le inevitabili rappresaglie, e l’effetto della perdita di competitività sulla crescita economica, a sua volta foriera di minori entrate fiscali. Secondo le stime, le nuove entrate non basterebbero a finanziare la riduzione delle aliquote promessa da Trump, né gli ammortizzatori sociali che sarebbero necessari per attutire le conseguenze dell’aumento dei prezzi, neanche negli scenari più favorevoli.
La regressività delle misure protezionistiche è evidente. In economia, una misura fiscale si considera regressiva quando colpisce più severamente le categorie sociali che hanno una minore capacità contributiva. I dazi colpirebbero coloro che dedicano una quota più ampia del proprio reddito al consumo di beni e servizi essenziali, cioè le classi meno abbienti, favorendo invece i più benestanti – che spendono solo una piccola quota delle proprie entrate per il consumo. Gli effetti si ritorcerebbero anche contro le piccole e medie imprese “protette”, che a fronte della possibilità di alzare i prezzi al riparo dai concorrenti internazionali si troverebbero a dover collocare i propri prodotti presso consumatori impoveriti.
Del resto, i danni subiti dai lavoratori non sarebbero compensati da eventuali benefici in termini di occupazione e salari. L’evidenza empirica basata sulle tariffe introdotte nel primo mandato di Trump suggerisce che l’aumento dei prezzi dei beni intermedi, la contrazione della domanda legata all’aumento dei prezzi e la perdita di competitività del sistema produttivo avrebbero effetti negativi sia sull’occupazione sia sui salari, peggiorando sensibilmente la vita dei lavoratori.
Sul piano internazionale, le conseguenze sarebbero parimenti cupe, al punto che perfino un economista vicino al presidente come Arthur Laffer ha definito le misure trumpiane come un buon “modo per garantire la terza guerra mondiale”. Nei paesi colpiti dai dazi, le inevitabili rappresaglie commerciali causerebbero aumenti dei prezzi e riduzioni della competitività, con conseguenze negative sulla domanda e sull’occupazione ed effetti regressivi simili a quelli previsti negli Stati Uniti.
Inoltre, il protezionismo rischia di minare le relazioni con i partner commerciali più colpiti, compresi alleati importanti come Canada e Messico. L’economia canadese ne risentirebbe particolarmente. Anche se gli Stati Uniti sono un esportatore netto di energia, il Canada fornisce la maggior parte delle importazioni energetiche statunitensi, e il commercio di energia transfrontaliero rappresenta una quota significativa del PIL per diverse province. Per il Canada non sarà facile diversificare le destinazioni delle sue esportazioni, per esempio riorientandole verso l’Asia e l’Europa, perché il commercio di energia richiede infrastrutture enormi, come gli oleodotti, che in questo momento sono progettate specificamente per soddisfare la domanda statunitense.
La Cina, invece, potrebbe aggirare parzialmente i dazi delocalizzando alcune attività produttive nel Sud Est Asiatico, come già è accaduto in passato, con effetti positivi per lo sviluppo della zona. Il Vietnam, che confina con importanti aree industriali cinesi, potrebbe trarre vantaggi significativi da una nuova ondata di protezionismo occidentale, attraendo investimenti diretti dall’estero e godendo della disponibilità di prodotti finali e intermedi più a buon mercato. Nel medio periodo anche l’energia potrebbe diventare più conveniente, nel caso in cui il Canada riuscisse a riorientare le sue infrastrutture verso l’Asia in tempi relativamente brevi. Eventuali riduzioni dei costi di produzione nel Sud-est asiatico potrebbero inasprire la concorrenza per le nostre piccole e medie imprese esposte al commercio internazionale.
In poche parole, l’esperienza insegna che (quasi) nessuno esce vincitore dalle guerre commerciali. Tuttavia, l’effetto di misure potenzialmente tanto fallimentari sul consenso per la nuova amministrazione dipenderà soprattutto dalle percezioni del pubblico. Naturalmente, Trump promuoverà i provvedimenti come una protezione dell’economia nazionale contro nemici esterni, a beneficio di lavoratori e imprese. Se la propaganda governativa riuscirà a convincere la classe media, Trump avrà guadagnato consensi a spese dei più deboli – in particolare, gli stessi lavoratori che sostiene di voler proteggere – indebolendo l’economia degli Stati Uniti a vantaggio di una piccola élite.
_____
Fabio Sabatini – Professore Ordinario di Economia Politica alla Sapienza Università di Roma