La situazione geopolitica ha creato una sorta di polarizzazione: «le imprese che sono riuscite comunque a internazionalizzare stanno raccogliendo risultati positivi, le altri vanno meno bene». I margini per migliorare la presenza sui mercati esteri fra le PMI sono a dir poco notevoli.
In base allo Score Internazionalizzazione di Cribis, tuttavia, la stragrande maggioranza delle imprese (oltre il 90%) ha ancora una propensione bassa o medio bassa.
L’indice serve a capire «se le imprese sono pronte all’internazionalizzazione» spiega Niccolò Zuffetti, marketing manager di Cribis, intervistato da PMI sulle strategie adeguate per le società che intendono espandersi all’estero e sugli strumenti che hanno a disposizione.
PMI italiane poco propense a internazionalizzare
In generale, le PMI sono ancora indietro nella capacità di adottare strategie strutturate e durevoli di internazionalizzazione, anche se la situazione sta progressivamente migliorando. «Spesso ci troviamo di fronte a strategie un po’ improvvisate. Ad esempio, aziende che pensano di iniziare a vendere in Francia perché hanno un dipendente che parla francese».
Spesso l’ostacolo è culturale: c’è l’idea che l’internazionalizzazione sia adatta solo alle grandi imprese o ai settori più legati al Made in Italy. E’ vero che Food, Moda, Nautica, Mobili e Design vanno più forte di altri. Ma sono proprio questi segmenti a dimostrare che l’internazionalizzazione è trasversale alle dimensioni: una PMI con 1-2 milioni di fatturato può avere canali interessanti di espansione all’estero.
La classifica per Regioni e Settori
La suddivisione geografica vede una maggior propensione a lavorare con l’estero in Lombardia (7,3% delle aziende), seguita da Veneto (6,3%) e Friuli-Venezia Giulia (5,8%).
La suddivisione per settore merceologico vede nella top ten i settori del Made in Italy (Tessile, Abbigliamento, Food, Mobile), ma in testa ci sono manufatti in metallo, commercio all’ingrosso di beni durevoli e macchinari industriali e computer.
Lo Score Internazionalizzazione: distribuzione in Italia
Le imprese con uno Score Internazionalizzazione alto o medio alto sono più frequentemente piccole, o addirittura micro.
Fra le destinazioni più attrattive ci sono Asia ed Estremo Oriente, ma la scelta del paese estero in cui posizionarsi cambia molto a seconda del settore di business. Zuffetti ci propone un esempio nel Food: «pensiamo all’olio. Siamo produttori, con diversi livelli di qualità. Emirati Arabi e USA stanno allargando fortemente l’acquisto di olio di alta qualità destinato a ristoranti di fascia alta».
Gli step per entrare e espandersi sui mercati esteri
Ma vediamo quali sono i consigli per le aziende che vogliono muoversi. Tenendo presente un altro dato: in genere non sono le startup a internazionalizzare (con l’eccezione di quelle innovative e digitali). Sono soprattutto le imprese che hanno da 26 a 50 anni di vita.
«Il primo passo è un’analisi del prodotto che si vuole vendere in relazione alle potenzialità dei mercati. E’ un’operazione relativamente semplice, si può fare anche solo guardando i codici doganali, i dati su import e export e i prezzi medi». Dopo aver identificato correttamente i paesi target, bisogna capire come arrivarci. «Le scelte di fondo sono due: aprire uffici commerciali in loco oppure affidarsi a esportatori e importatori». A questo punto, bisogna individuare i potenziali clienti.
Strumenti Cribis per l’internazionalizzazione
Cribis mette a disposizione strumenti e servizi che aiutano sia a individuare i paesi a cui rivolgersi sia a trovare clienti o distributori in loco.
Per esempio, «forniamo un servizio molto semplice, per individuare quattro o cinque distributori nel mondo esperti in un determinato prodotto». Oppure, un prodotto software che a sua volta consente di avere dati utili: «per esempio, è possibile chiedere quali aziende producono imballaggi in un determinato paese, con particolari caratteristiche: compare una lista, completa di informazioni sul management e contatti per poter iniziare a fare business».
Il rischio di ritardo nei pagamenti
Cribis offre anhe strumenti per «valutare se la solidità dei clienti e una serie di rischi, ad esempio sui ritardi di pagamenti». E’ uno dei timori più frequenti fra le imprese che si rivolgono a mercati esteri. Ci sono paesi, ad esempio il Nord Europa, dove questi rischi sono in genere molto bassi, altri in cui è opportuno fare analisi più accurate. «Noi facciamo analisi ogni quattro mesi, confrontando i pagamenti medi a livello mondiale. Nel Nord Europa già dieci giorni sono considerati un ritardo importante, mentre per esempio in Italia questo è un tempo fisiologico».
In ogni caso, l’importante è valutare la percentuale di rischio sul cliente. «Se è alto, si adottano conseguenti forme di tutela. Magari chiedendo pagamenti anticipati, oppure stipulando assicurazioni».
L’altro grosso rischio è il fallimento del partner. «Anche questo può essere misurato, anzi è un’operazione che va necessariamente fatta sia verso i clienti sia verso i fornitori».
Infine, bisogna mettere a punto corrette strategie di gestione delle operazioni con l’estero, che non riguardano solo il reparto vendite. «C’è tutta una parte relativa a contratti, legislazioni, certificazioni, strumenti come le lettere di credito per chi non paga». Anche qui, o si pensa a una struttura interna, facendo adeguata formazione, oppure si cercano consulenti.