Le liste d’attesa troppo lunghe sono il motivo principale rilevato dall’Istat in base al quale gli italiani rinunciano a curarsi. Passata l’emergenza Covid, le storiche criticità della sanità pubblica permangono ed anzi risultano ancora più evidenti. I tempi di attesa troppo lunghi (che spingono il 4,2% della popolazione a rinunciare alle cure) ed i costi eccessivi (che scoraggiano il 3,2%).
I dati sono stati presentati in Commissione al Senato da Cristina Freguja (Direttore Direzione centrale statistiche sociali e welfare, Istat) in sede di indagine conoscitiva sulle forme integrative di previdenza e di assistenza sanitaria.
Sanità, la spesa dello stato e delle famiglie
La pandemia ha fatto salire la spesa sanitaria, ma emblematicamente con un onere maggiore a carico delle famiglie rispetto a quello delle pubbliche amministrazioni.
Le pubbliche amministrazione dal 2012 al 2021, hanno registrato un incremento dell’1,8% in media annua (+0,8 dal 2012 al 2019). Con un’impennata nel biennio 2020-2021. La spesa delle famiglie è salita in misura leggermente inferiore, +1,7% nell’analogo periodo 2012-2021, anche qui con una dinamica che risente fortemente della pandemia. Era cresciuta a un ritmo del 2,1% fino al 2019, per poi scendere di 34 miliardi nel 2020 e tornare nel 2021 ai livelli 2019.
«Le principali spese sanitarie sostenute direttamente dalle famiglie – sottolinea Freguja – riguardano l’assistenza ambulatoriale per cura e riabilitazione (36,5%), l’acquisto di prodotti farmaceutici e altri presidi medici non durevoli (29,3%), l’assistenza ospedaliera a lungo termine e l’acquisto di apparecchi terapeutici ed altri presidi medici durevoli (per entrambe queste ultime due voci l’incidenza è pari al 10,4%)».
Nel decennio 2012-2021 si registra una spesa per assicurazioni sanitarie pari a 4,5 miliardi. Al netto dei costi di gestione, nel 2021 il 62,3% della spesa delle assicurazioni volontarie è dedicata all’assistenza ambulatoriale per cura e riabilitazione e il 17,9% alle spese per apparecchi terapeutici ed altri presidi medici durevoli.
I dati sulla rinuncia alle cure
L’impatto più rilevante della pandemia è dato dalla quota di persone che hanno rinunciato a curarsi: 6,3% nel 2019, 9,6% nel 2020, 11,1% nel 2021. Nel 2022 c’è un netto recupero, la quota scende al 7%, tornando ai livelli 2018. L’Istat propone due considerazioni:
- si sono ridotte le differenze territoriali e quelle sociali: le fasce più abbienti sembrano «aver dovuto rinunciare a prestazioni sanitarie in misura maggiore che negli anni precedenti la pandemia».
- Diventa più frequente la barriera d’accesso relativa ai tempi di attesa, è pari al 4,2% nel 2022, mentre le rinunce per motivi economici scendono al 3,2%, dal 4,9% del 2019.
In generale, nel 2022 le prestazioni sanitarie fruite sono «più contenute rispetto al periodo pre-pandemico». Si riducono visite specialistiche (dal 42,3% nel 2019 al 38,8% nel 2022), accertamenti diagnostici (dal 35,7% al 32,0%, con punte di cinque punti percentuali nel Mezzogiorno). Ci sono percentuali più alte fra gli anziani (soprattutto le donne, con una flessione del 6%), le visite specialistiche per i minori (anche qui, -6%), gli accertamenti per le donne adulte.
Spesa privata e assicurazioni sanitarie
Anche l’Agenas, Agenzia sanitaria per i servizi sanitari regionali, «conferma che nel primo semestre 2022 la quasi totalità delle regioni non solo non ha recuperato le code accumulatesi durante la pandemia, ma nemmeno i livelli di specialistica ambulatoriale del 2019». E dai dati Istat emerge «il maggior peso della rinuncia a prestazioni per lunghe liste di attesa». Tutto questo comporta anche un maggior ricorso all’out of pocket, o alle prestazioni coperte dalle assicurazioni. «Nel 2022, la composizione rispetto alla spesa per visite e accertamenti si sposta di alcuni punti percentuali da prestazioni a carico del SSN o gratuite a quelle pagate di tasca propria o con rimborso parziale o totale da parte delle assicurazioni private o aziendali». I dati:
- spese pagate dalle famiglie (2019 vs. 2022): per le visite specialistiche la percentuale sale dal 37% al 41,8%, per gli accertamenti diagnostici dal 23% al 27,6%;
- spese pagate dalle assicurazioni: riguarda il 5% di visite specialistiche o accertamenti diagnostici. Il maggior ricorso alla copertura assicurativa riguarda il Lazio (10,8% nel 2022 per le visite specialistiche), seguito da Lombardia (9,7%), provincia di Bolzano (9,1%), Piemonte (8,1%). Si scende al 5% in Liguria, Emilia Romagna e Toscana, mentre nelle regioni del Mezzogiorno copre in media solo l’1,3% per le visite specialistiche.
Il ruolo del welfare aziendale
L’audizione propone un focus sull’assistenza sanitaria pagata dai datori di lavoro, tramite il welfare aziendale.
«Si stima per l’anno 2020 una platea di circa 8 milioni e 130 mila lavoratori dipendenti e assimilati (ad es. soci di cooperative) fruitori di tali contributi, con associato un valore medio annuo di 316 euro». In pratica, nel 2020 i datori di lavoro hanno versato direttamente, ovvero per il tramite delle casse assistenziali col pagamento dei premi assicurativi, un ammontare complessivo pari a circa 2,6 miliardi di contributi sanitari.
«L’analisi delle caratteristiche socio-demografiche dei beneficiari mostra che si tratta per lo più di uomini (il 59,8%, contro il 40,2% delle lavoratrici), con un età compresa prevalentemente tra i 35 e i 54 anni (57,3%, con un peso relativo superiore alla quota che essi rappresentano all’interno della forza lavoro, 52,8%)». I settori maggiormente coperti dal welfare aziendale sono l’industria in senso stretto (34,3%), il commercio (15%), i servizi alle imprese (10%).