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Italia a un bivio tra crisi e ripresa: alla ricerca di circuiti virtuosi

di Alessandra Gualtieri

8 Febbraio 2021 10:49

Una Repubblica fondata sul lavoro deve tutelare e incentivare anche quello autonomo imprenditoriale per il bene del Paese: riflessioni di Lucio d’Auria.

L’art 1 della Costituzione (L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro), ai tempi della Costituente fu voluto da Aldo Moro, venne formulato nella sua veste attuale da Amintore Fanfani e approvato il 22 marzo 1947. Tale principio viene ulteriormente qualificato dall’art. 4 che così recita:

La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.

Nel dibattito politico italiano si è fatto sempre ampio riferimento all’articolo 1 e al contributo fondativo del lavoro, ma si è forse meno evidenziato che la Costituzione attribuisce allo Stato l’attività di stimolo alla creazione di lavoro, con la contemporanea finalizzazione al progresso materiale e spirituale della società. All’alba di questo nuovo decennio che parte da una situazione di pesanti difficoltà, si può dunque cogliere l’occasione di una rilettura dei principi alla base della nostra convivenza, all’interno di un Paese di grandissima storia e cultura riconosciuta più all’estero che all’interno.

Il lavoro deve concorrere al progresso materiale e spirituale della nostra comunità, e quindi deve essere un lavoro “buono”, all’interno di contesti profittevoli, di utilità generale, che sappiano affermare la loro efficienza ed efficacia sul mercato. Quindi, il lavoro di cui parla la nostra Costituzione non è, come si è talvolta ritenuto, esclusivamente il lavoro subordinato, ma anche il lavoro autonomo ed il lavoro imprenditoriale di chi si assume in più il rischio del successo o meno della propria attività economica. I contesti devono perciò essere iniziative economiche competitive che siano in grado di creare ricchezza e benessere per la società, e lo Stato deve svolgere il ruolo di facilitatore per predisporre le condizioni perché questo circuito virtuoso si affermi e si sviluppi.

Dalle lotte sindacali degli anni ’70 l’Italia ha certamente fatto passi da gigante nella prospettiva di una sempre maggiore tutela del lavoro subordinato, a partire dallo Statuto dei lavoratori e dalla legislazione per il lavoro femminile, anche se ancora oggi persistono sacche di lavoro meno protetto e talvolta addirittura di sfruttamento della manodopera, come nel caso dell’immigrazione. Ma allo stesso tempo l’iniziativa imprenditoriale è stata sottoposta ad un regime di particolare tutela dell’interesse generale, in virtù del quale ogni iniziativa economica è sottoposta ad una congerie di iter autorizzativi che certamente complicano l’agire economico.

In Italia, per lo svolgimento degli adempimenti burocratici, il titolare di una piccola impresa impiega 45 giornate di lavoro, cui si aggiungono altre 28 giornate di suoi dipendenti, per un costo di 11.000 euro ad azienda, ed un costo totale di circa 5 miliardi per il Paese. Un aspirante imprenditore che volesse aprire un bar, deve affrontare sino a 71 adempimenti, interfacciandosi con 26 enti, con i quali entrare in contatto anche più volte, con una spesa che sfiora i 15.000 euro.

La spesa media per gli adempimenti su salute e sicurezza sul lavoro va da 1.854 euro per le gelaterie, considerate a basso rischio, a 2.119 euro per i bar, salendo a 4.414 per l’autoriparazione e addirittura a 5.784 euro per la falegnameria. L’autorizzazione al posizionamento di cartelloni, insegne di esercizio e altri mezzi pubblicitari coinvolge fino a 12 enti, con il risultato che alcuni comuni si prendono oltre 60 giorni di tempo per rilasciare il nulla osta. Se l’insegna va collocata in un centro storico, poi, servono anche un nulla osta paesaggistico e un via libera della Polizia municipale. In Italia, il totale degli oneri da adempimenti amministrativi derivanti dalla legislazione interna (ovvero nazionale o regionale) è stimato essere pari a circa 100 miliardi di euro l’anno, ovvero il 4,6% del PIL.

Non vorrei scomodare Adam Smith nel dire che, ancora oggi, la ricchezza delle nazioni dipende in massima parte dal lavoro produttivo in esse svolto, e dalla capacità produttiva di tale lavoro. Ma in che modo lo Stato promuove le condizioni che rendono effettivo il diritto al lavoro, come si ricava dall’articolo 4 della Costituzione, se si rende complicata l’iniziativa economica che del lavoro costituisce il presupposto ineludibile?

In questi tempi di crisi economica, di aziende che vedono minacciata la continuità della propria attività, e soprattutto di aziende che chiudono definitivamente, il dibattito politico parla di creazione di nuovi posti di lavoro per l’uscita dalla crisi, un concetto più accattivante per la gestione del consenso. In realtà sarebbe più corretto parlare di sviluppo delle iniziative economiche, che dei posti di lavoro costituiscono il presupposto ineludibile, ma nell’immaginario collettivo questo è un concetto meno seduttivo, anche se reale.

E lo sviluppo di iniziative economiche potrebbe essere favorito dalla creazione di un ambiente meno ostile, all’interno del quale gli adempimenti burocratici vengano accorpati e semplificati, magari ricorrendo alle nuove tecnologie digitali, che certamente possono contribuire in maniera risolutiva. Il progetto Next Generation EU dell’Unione Europea certamente offre l’opportunità di investire nella Digitalizzazione, mettendo a disposizione dell’Italia notevoli risorse, la cui erogazione è però subordinata alla predisposizione di precise Riforme che garantiscano lo sviluppo economico sincronico di tutta l’Unione. Si tratta di una grande occasione per il nostro Paese, la cui classe politica però sembrerebbe intendere tale progetto essenzialmente come l’ennesimo piano di finanziamento, trascurando l’aspetto delle riforme, che invece è il presupposto per l’erogazione.

Il dibattito è incentrato soprattutto sulla capacità di spesa e poco sulla capacità di investimento idonea a generare ritorni economici anche a medio lungo termine. L’avvento del nuovo Governo Draghi potrebbe favorire un approccio più di sistema verso una politica di sviluppo economico basata sulle riforme, e sulla predisposizione di un progetto di Recovery Plan più aderente alle richieste UE.

Occorre investire sulla scuola per facilitare l’inserimento dei giovani nel mercato del lavoro, nella ricerca per rendere sempre più competitive le nostre aziende, occorre una “spinta gentile” per guidare le aziende verso il modello virtuoso di una maggiore responsabilità sociale nei confronti dei dipendenti, degli azionisti, di clienti e fornitori, dell’ambiente sociale su cui insiste l’attività aziendale.

La pandemia ha evidenziato il vuoto produttivo del nostro Paese per quanto riguarda alcuni presidi medico chirurgici, e talune cure come i vaccini, pur esistendo le premesse per avviare una produzione nazionale che limitasse la dipendenza dall’estero. Confidiamo nelle capacità e nella statura internazionale del Presidente Draghi affinché si compia il miracolo di un salto quantico del nostro sistema economico e finanziario, tenendo presente che soltanto lo sviluppo economico può consentirci di attenuare il pesante fardello del debito pubblico, oramai arrivato a limiti non più sostenibili.

E che ognuno di noi, per quanto gli compete, si rimbocchi le maniche.

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di Lucio d’Auria