Crisi di Governo: analisi dei motivi, punto per punto

di Barbara Weisz

14 Gennaio 2021 16:46

Perchè il MES non vale una crisi nel mezzo di una pandemia: l'analisi dei motivi del ritiro di Italia Viva e del poco costruttivo dibattito politico.

Il metodo, il merito, il Recovery Plan e il MES: sono i motivi per i quali in piena pandemia è caduto (o sta cadendo, l’iter istituzionale è una delle tante originalità della situazione) il Governo. E’ utile approfondirne i punti, visto che molti non avranno le idee chiarissime sui motivi della crisi. Anche perché hanno altro da fare: curarsi dal Covid, stare vicino ai propri cari o amici ammalati pur senza poterli vedere di persona, fare i conti con le difficoltà economiche della cassa integrazione o delle restrizioni alle attività commerciali, e perfino consultare le leggi di stato per capire se possono uscire di casa, quando e per fare cosa. Spiegare perchè, in tale contesto, scoppia una crisi di Governo è doveroso.

Perchè è scoppiata la crisi di Governo

La crisi è stata aperta dal partito fondato da Matteo Renzi, con le dimissioni delle due ministre Teresa Bellanova e Paola Bonetti e del sottosegretario Ivan Scalfarotto. I motivi, spiegati in conferenza stampa dallo stesso Renzi, sono quelli sopra sintetizzati. Partiamo dall’ultimo, il più tecnico e di più difficile comprensione per il cittadino comune, alle prese con le gravissime difficoltà quotidiane a cui il momento storico ci sottopone. Fra l’altro, diciamolo, sono mesi che al Governo (non solo da Italia Viva) viene rimproverato di non aver usato i soldi del MES. Quindi, approfondiamo.

MES vs. Recovery Plan

Il Meccanismo europeo di stabilità (MES) è un complesso strumento attraverso cui l’Europa può concedere prestiti agli stati (quindi i soldi vanno restituiti), via via riformato nel corso degli anni, fino allo scorso novembre. Prevede delle condizionalità, che rappresentano il vero punto del contendere. E’ vero che, in considerazione della crisi Covid, queste ultime sono state molto semplificate se i Paesi chiedono i soldi per rafforzare il sistema sanitario a fronte della pandemia. Ma comunque, quando si ottiene il prestito, si firma un memorandum che prevede precisi impegni.

In passato, l’Europa ha usato meccanismi molto più stringenti per concedere prestiti: il caso che tutti ricordano è quello della Grecia, che fondamentalmente è stata commissariata dalla famosa troika (Banca centrale europea, Fondo monetario internazionale, Commissione Ue). Ripetiamolo: l’attuale meccanismo non prevede rigidità simili. Ma comunque comporta impegni, anche sul fronte dei parametri di bilancio. Fatta questa premessa (molto semplicistica, lo sottolineiamo), passiamo ai conti. In base al meccanismo del MES l’Italia potrebbe chiedere 39 miliardi di euro.

In questo momento il nostro Governo sta però predisponendo un piano che di soldi europei ne spende ben 209 miliardi (che provengono dal Next Generation EU). E’ il Recovery Plan, approvato senza il voto delle ministre di Italia Viva (di fatto, il primo atto formale di apertura nella crisi). Quindi, per riassumere criticamente, si discute di 39 miliardi quando ce ne sono 209 che ancora non abbiamo neanche iniziato a spendere. Vale anche la pena di sottolineare che è la prima volta nella storia d’Europa che arrivano risorse così ingenti.

Ma non è tutto. In realtà, il Recovery Plan vale più di 209 miliardi, perché (in risposta alle perplessità sul mancato utilizzo del MES) sono stati inseriti altri miliardi sfruttando fondi europei, portando la cifra totale a 222 miliardi circa. Tutti da poter spendere per rispondere alla crisi e far ripartire l’economia. Cifra mai vista prima. Ma si continua a discutere di 39 miliardi (che in più comportano impegni sul fronte delle politiche di bilancio).

I soldi di Next Generation EU (i 209 miliardi) sono in parte a fondo perduto (81,4 mld) e in parte in forma di prestito (127 miliardi). Ma questa volta senza alcuna condizionalità sul fronte del bilancio. Molto in sintesi: vengono versati in diverse tranche e, se un Paese non li spende come dovrebbe, l’Europa non versa le tranche successive.

Qualcuno potrebbe forse dire: in questo momento c’è un grande bisogno di ulteriori risorse finanziarie con tutti i ristori, i bonus e gli ammortizzatori necessari per affrontare la crisi. Invece no: tutti i decreti Covid sono finanziati con il bilancio dello Stato. I 209 miliardi sono destinati a riforme e progetti di rilancio. Per dirla in modo ancor più semplice: non possiamo spenderli in ristori emergenziali, dobbiamo usarli per nuove riforme e progetti.

Infine, sempre sul MES, un’ultima considerazione. L’Italia è il paese che nell’ambito del piano europeo ha ottenuto più risorse. In base al meccanismo inizialmente previsto dalla Commissione, dovevano arrivare circa 172,2 miliardi. L’accordo finale li ha visto salire a quota 209. Guarda caso, c’è una differenza di oltre 36 miliardi, cifra molto vicina a quella del MES. Ora, potrebbe essere un caso, ma insomma sembra più che probabile che forse per una volta siamo riusciti a fare una trattativa soddisfacente in sede europea. Un merito che, è bene sottolinearlo, è corretto attribuire all’intero Governo.

Quindi, la cronologia dei fatti è la seguente: nell’aprile scorso, in base al meccanismo messo a punto dal piano UE, l’Italia doveva avere 172,2 miliardi. Alla fine, ne ha ottenuti 209 e il Recovery Plan italiano ha utilizzato altri fondi Ue salendo a 222 miliardi. Chi riteneva, insomma, che fossero necessari altri 39 miliardi dovrebbe essere soddisfatto. Perché siamo riusciti ad avere un Recovey Plan che ci consente di spendere gli stessi soldi senza impegni vincolanti sul fronte delle politiche di bilancio.

E’ difficile, molto difficile, capire per quale motivo tutto questo non sia stato sufficiente a non far cadere il Governo. Fra l’altro, una crisi di Governo nel paese che ha ottenuto più soldi dall’Europa non sembra riconducibile a una fine strategia nei confronti di Bruxelles. L’Italia è una partner fondamentale dell’Ue, in questo contesto è riuscita a raccogliere più del solito, forse non è il momento di sperperare il patrimonio di credibilità acquisito.

Misure del PNRR

Renzi ha anche criticato le misure del Recovery Plan, rivendicando il merito di aver insistito per alzare le risorse da destinare alla Sanità. Segno che, evidentemente, un dibattito all’interno della maggioranza c’è stato, e ha anche dato frutti positivi. Il testo approvato dal Governo è ancora oggetto di confronto, quindi in ogni caso ulteriori spazi di manovra ci sarebbero ancora.

Metodo e merito

E veniamo agli altri due punti: il metodo e il merito. Brevemente, il metodo contestato si potrebbe riassumere in un eccessivo personalismo del premier, in un ricorso troppo frequente allo strumento del DPCM (Decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri), allo scarso coinvolgimento del Parlamento (troppi decreti, poco spazio per la loro conversione in aula, discussione a tappe forzate sulla manovra). Il ricorso eccessivo al decreto legge non è attribuibile a questo particolare Governo, essendo stato ampiamente praticato anche da tutti quelli che lo hanno preceduto, senza che fra l’altro ci fossero situazioni emergenziali. Che, lo ricordiamo, giustificano il ricorso al decreto legge (un provvedimento che il Governo prende perché ritiene che ci siano elementi di necessità e urgenza). I DPCM , questo sì, sono stati molto più utilizzati del solito, ma soprattutto per far entrare in vigore velocemente regole anti Covid che sostanzialmente introducono limitazioni senza precedenti per uno stato di diritto, e per le quali non sembra scorretto l’utilizzo di uno strumento che, automaticamente, decade (come i DPCM). Proprio gli interventi del Premier a reti unificate, fra l’altro (inseriti fra i motivi di contrasto), sono serviti spesso a rassicurare i cittadini sul carattere di eccezionalità dei provvedimenti che venivano presi, e sulla consapevolezza, sempre sottolineata, che si trattava di una negazione di diritti costituzionalmente garantiti, presa in nome di un’emergenza reale.

Qui apriamo una parentesi invece sul metodo utilizzato negli ultimi giorni. Bisogna dirlo, l’impressione di un braccio di ferro alimentato dalla stesso Governo c’è stato. L’ultimatum di martedì 12 gennaio (se Italia Viva esce dal Governo, noi andiamo avanti senza), non si può definire un atto di compostezza istituzionale. In generale, gli ultimatum si danno ai nemici, non agli alleati. Con i quali, se ci sono divergenze, si discute. Possibilmente, lontani dalla telecamere, e anche dai social network.

Anche perchè stiamo parlando di politica in Italia, ovvero il paese dei ribaltoni. E la frase sopra riportata fa indubitabilmente pensare a un’ipotesi di ribaltone. Va detto che su questo fronte c’è stata una repentina marcia indietro. Va anche detto che è stata poco ortodossa dal punto di vista istituzionale anche l’apertura della crisi tramite conferenza stampa. I ministri si dimettono comunicandolo al premier, la fiducia si toglie in parlamento.

Ancora: dopo l’apertura della crisi, leader politici e ministri della Repubblica si sono messi a twittare l’appoggio al premier, coniando anche uno specifico hashtag. La ministra dimissionaria delle Pari opportunità Bonetti spiega che Italia Viva è disposta «a stare in maggioranza, anzi le mie dimissioni sono lo spazio perché questo tavolo finalmente si apra, sono mesi, è da novembre che chiediamo un tavolo per riprogettare le risposte da dare al paese». Una precisazione molto utile, perchè probabilmente pochi avevano intuito che le dimissioni fossero motivate dalla volontà di aprire un tavolo di maggioranza. Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, che solo ieri chiedeva a tutti di fare un passo indietro per riaprire il dialogo, oggi dichiara che l’apertura della crisi divide definitivamente la strade del Governo e di Italia Viva, e torna a rivolgersi ai «costruttori europei» che si trovano in Parlamento. Ribaltone? Il segretario del Pd, Nicola Zingaretti, tiene una linea molto simile: ieri appelli per ricucire, oggi sottolinea l’inaffidabilità di Italia Viva. Si potrebbe continuare, se non fosse che si rischia di non finire più.

Ora, il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel tradizionale discorso di Capodanno, ha rivolto un appello preciso alle forze politiche e istituzionali: «non viviamo in una parentesi della storia. Questo è tempo di costruttori». Forse sarebbe ora che queste parole venissero interpretate correttamente, e possibilmente anche attuate. Il Capo dello Stato, che si è espresso in modo chiarissimo, ha spiegato come si fa: «tenendo connesse le responsabilità delle istituzioni con i sentimenti delle persone».