Per far ripartire l’economia quando l’emergenza Coronavirus sarà finita dobbiamo analizzare senza reticenze i nostri errori e imparare da chi è riuscito ad appiattire la curva. PMI.it ne ha discusso con Fabio Sabatini, professore associato di Politica Economica alla Sapienza Università di Roma e Direttore dello European PhD Programme in Socio-Economic and Statistical Studies, suggerisce di imitare i paesi che sono riusciti a frenare l’epidemia.
Abbiamo chiesto al professor Sabatini se il governo abbia fatto finora fatto abbastanza, e cosa succederà all’economia nei prossimi mesi.
Abbiamo superato la soglia dei 10.000 morti. Si poteva evitare?
Nel mondo occidentale siamo stati i primi ad affrontare l’epidemia di Coronavirus e abbiamo preso decisioni coraggiose. Il lockdown ci ha consentito di evitare nuovi focolai nel centro sud. Ma ora dobbiamo usare al meglio il tempo guadagnato con il rallentamento del contagio. Il lockdown da solo non basta e non può durare in eterno: servono strategie complementari e una pianificazione del dopo.
Cos’altro possiamo fare per contrastare l’epidemia?
Altri paesi sono riusciti a rallentare l’epidemia senza un solo giorno di lockdown. Dobbiamo imparare da chi è riuscito ad “appiattire la curva”. La Corea del Sud per esempio.
Si riferisce all’adozione di tecnologie di “contact tracing”?
Sì, ma non solo. Anche grazie all’esperienza accumulata con la Mers, la Corea ha riconosciuto subito la tempesta in arrivo. Una settimana dopo il primo caso a fine gennaio, il governo ha incentivato le imprese farmaceutiche a sviluppare test kit per il coronavirus per la produzione di massa. La Corea produce adesso 100.000 kit al giorno e li esporta.
Per effettuare i test, le autorità sanitarie hanno aperto centinaia di nuovi laboratori distaccati dalle strutture sanitarie. Ciò ha permesso di alleviare la pressione sugli ospedali e minimizzare i contatti con i pazienti e tra i pazienti, limitando i rischi di contagio per il personale sanitario. Per esempio, i cittadini possono recarsi senza appuntamento in dei mini-ambulatori mobili a forma di cabina telefonica, dove ricevono il tampone senza alcun contatto con i sanitari.
Cosa succede in Corea del Sud se un paziente risulta positivo al Coronavirus?
Qui entra in gioco il “contact tracing”. Quando un paziente risulta positivo al test, gli operatori sanitari tracciano i suoi spostamenti recenti per trovare, testare e, se necessario, isolare chiunque sia entrato in contatto con lui. Ciò consente l’identificazione precoce delle catene di contagio.
La procedura si avvale di protocolli sviluppati per contrastare la Mers, che comprendono l’uso delle registrazioni delle telecamere di sicurezza e delle impronte lasciate dalle carte di credito e dai GPS di automobili e smartphone. I pazienti cui è stata ordinata la quarantena (perché positivi o esposti al rischio di contagio) devono scaricare sullo smartphone un’app che traccia i movimenti e invia un allarme in caso di violazione della quarantena.
Tutti i cittadini hanno installato un’altra app che fa vibrare lo smartphone con degli avvisi di emergenza ogni volta che nel proprio quartiere sono identificati nuovi casi. L’app riporta in tempo reale i percorsi effettuati dalle persone infette. Per esempio, quali autobus hanno preso, quando e dove sono saliti e scesi, e perfino se al momento indossavano la mascherina. Le persone che temono di aver incrociato pazienti infetti sono invitate a recarsi nei testing center – dove il contatto col personale sanitario è sempre tenuto al minimo.
L’esperienza coreana ci riporta alla prima domanda: è stato fatto abbastanza?
Riconoscere che sono stati commessi degli errori ci aiuterà a non ripeterli in futuro. Le cronache mostrano che in Italia sia molto difficile eseguire il tampone. Pazienti con sintomi, evidentemente contagiosi, sono rimandati a casa senza essere testati. La lettera inviata dai medici dell’ospedale di Bergamo al New England Journal of Medicine suggerisce che in diversi casi gli ospedali siano diventati i principali focolai di infezione. Il personale sanitario non è adeguatamente protetto e rischia di diventare un ulteriore veicolo di contagio.
Dall’inizio dell’epidemia sono morti molti tra medici e infermieri. Sui media leggiamo sempre più frequentemente racconti di operatori sanitari che denunciano la mancanza di equipaggiamento (per esempio, mascherine e tute protettive) e l’impossibilità di eseguire un tampone nonostante i ripetuti contatti con pazienti contagiosi. Sul territorio manca un sistema di assistenza sanitaria e sociale che possa alleviare la pressione sugli ospedali. In Lombardia i pazienti con sintomi evidenti sono invitati a tornare a casa nella speranza che possano guarire da soli.
Quindi la responsabilità del contagio non è soltanto dei cittadini poco disciplinati.
No. Le istituzioni devono assumersi le proprie responsabilità, soprattutto in Lombardia dove è evidente che qualcosa non ha funzionato. I primi dati disponibili mostrano che la grande maggioranza dei cittadini sta rispettando i divieti. Gli inasprimenti progressivi di divieti e sanzioni sembrano rispondere più a reazioni emotive e ragioni di propaganda, che a comprovate necessità di maggiore repressione generalizzata. Non abbiamo bisogno dell’esercito in strada ma di proteggere il personale sanitario, rafforzare l’assistenza sul territorio, aumentare la nostra capacità di testing e usare tecnologie di contact tracing. Come suggerisce la lettera dei medici di Bergamo, i principali veicoli di contagio non sono i runner o le persone che fanno la spesa.
Ecco, la spesa. È giusto ridurre gli orari dei supermercati?
No, è un grave errore. Anziani, pazienti cronici e immunodepressi hanno così maggiore probabilità di trovarsi in coda con i più giovani, che perdono la possibilità di fare la spesa nelle ore meno frequentate. Si moltiplicano le occasioni di contagio, nonché l’ansia e la preoccupazione dei consumatori di ogni età. Chi deve recarsi comunque al lavoro, o è tenuto a lavorare in smart working, non può permettersi di affrontare lunghe code in ore diurne. Con i supermercati online già congestionati da settimane, è diventato difficile per i lavoratori procurarsi gli approvvigionamenti essenziali. L’effetto psicologico è molto negativo, perché la chiusura instilla il dubbio che le catene produttive siano vicine all’interruzione e i prodotti di prima necessità prossimi alla scarsità. Ne deriva una corsa continua all’accaparramento che doveva essere evitata.
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La riduzione dell’orario non è dovuta a ragioni epidemiologiche ma alle richieste dei sindacati.
Le rivendicazioni dei lavoratori della grande distribuzione sono giuste. Commessi, magazzinieri e fattorini hanno paura e sono sottoposti a turni spesso massacranti. Ridurre l’orario di apertura però non è la soluzione. Anziché offrire sussidi a pioggia, sarebbe opportuno concentrarne una parte sulla grande distribuzione. Bisogna incentivare l’assunzione di manodopera appartenente alle categorie meno vulnerabili e in grado di isolarsi temporaneamente da eventuali parenti a rischio, per consentire turni più sostenibili che preservino sia la salute fisica e mentale dei lavoratori sia l’efficienza del servizio (che è a sua volta determinante per la salute fisica e mentale dei consumatori). Qualsiasi misura di supporto alla grande distribuzione dovrebbe tenere conto della necessità di preservare senza condizioni la salute, la posizione e le prerogative della forza lavoro già esistente. Bisogna evitare che le aziende ne approfittino per sostituire i propri dipendenti con altri meno esigenti e più flessibili. È necessario tutelare i diritti di commessi, magazzinieri e rider che sono già molto provati e stanno svolgendo un servizio essenziale per il benessere della collettività. L’ultima cosa che vogliamo adesso è generare nuovi precari e indebolire deliberatamente la posizione di quelli esistenti.
Gli incentivi dovrebbero aiutare a prolungare gli orari di apertura anziché ridurli, creando, se possibile, lavoro anziché distruggerlo. Con una grande distribuzione opportunamente potenziata sarebbe più semplice anche stabilire degli orari riservati agli acquisti da parte delle fasce più vulnerabili dei consumatori. Consumatori e lavoratori, inoltre, devono poter utilizzare servizi pubblici adeguati. Non si può andare al lavoro se la metropolitana è chiusa e gli autobus non passano, né tutti i clienti hanno la fortuna di disporre di un supermercato sotto casa.
Per limitare i contatti, non sarebbe opportuno potenziare le consegne a domicilio?
Il commercio online deve essere parimenti supportato, con la dovuta attenzione al rispetto delle norme di “contactless delivery”. Ciò significa intervenire non solo sul lato dell’offerta (le aziende), ma anche della domanda (i consumatori). L’emergenza di questi giorni esaspera la separazione tra chi ha la banda larga e chi ha naviga con connessioni lente. Dobbiamo allocare le risorse (che sono tutt’altro che illimitate) su settori che avranno un ruolo strategico nel superamento della crisi. Non solo la sanità e l’assistenza, ma anche la grande distribuzione e la rete veloce.
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Stiamo già spendendo molto, possiamo permetterci tutti questi incentivi?
Ora è necessario iniettare liquidità nel sistema per sostenere imprese e famiglie. Dobbiamo spendere in deficit e accettare un aumento del rapporto tra debito pubblico e Pil. Grazie all’Europa possiamo permetterci di non preoccuparci della sostenibilità di tali spese. Se non facessimo parte dell’unione monetaria, i mercati ci concederebbero il credito di cui abbiamo bisogno a dei tassi insostenibili per un paese con debito pubblico elevato e crescita lenta come il nostro. La garanzia della BCE risolve questo problema.
Vuol dire che aveva ragione chi proponeva di monetizzare il debito?
No. L’epidemia è uno shock esogeno che non ha niente a che fare con le nostre scelte di politica economica. A shock di questo tipo si può rispondere con politiche fiscali fortemente espansive finanziate a debito, nella consapevolezza che, grazie all’Europa, non sarà un problema collocare i nostri titoli sovrani. Fuori dall’emergenza, le autorità monetarie europee non devono necessariamente sostenere la spesa degli stati membri. In condizioni normali la monetizzazione senza limiti del debito comporta effetti negativi potenzialmente devastanti, dall’uscita dall’unione monetaria all’impossibilità di accedere ai mercati internazionali per collocare i titoli sovrani, con conseguenze inflazionistiche potenzialmente incontrollabili. Non è un caso che paesi con rapporti tra debito e Pil più sostenibili del nostro abbiano adesso maggiore libertà d’azione per fronteggiare l’emergenza. Immaginate cosa accadrebbe se un bisogno di liquidità così ingente si verificasse fuori dall’euro, con la lira debole e un accesso limitato ai mercati internazionali. Sarebbe un disastro.
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Come evolverà il rapporto tra debito e Pil in seguito all’epidemia?
Purtroppo, è destinato a peggiorare, soprattutto per un paese a crescita lenta (o quasi nulla) come il nostro. Nell’emergenza paghiamo anche la scarsa attenzione data finora alla crescita. Ma dobbiamo preoccuparci di un problema alla volta. Ora è essenziale ridurre la durata del lockdown per far ripartire l’economia il prima possibile. Secondo stime preliminari, se la chiusura delle attività produttive attualmente ferme dovesse protrarsi fino alla fine di aprile, avremmo una riduzione del Pil di circa 6 punti percentuali. Per questo è essenziale usare bene il tempo guadagnato con il lockdown. Sviluppare strategie per contrastare attivamente l’epidemia consentirà di ripartire prima che la situazione sia completamente compromessa.
Almeno sul “contact tracing” però stiamo recuperando terreno. La ministra Pisano ha annunciato l’istituzione di una task force per realizzarlo.
La ministra Pisano ha annunciato l’inizio dei lavori di un gruppo di esperti in materia di salute e privacy al fine di effettuare una ricognizione sulle tecnologie utili all’emergenza. Il 27 marzo: più di un mese dopo l’inizio della crisi, noi abbiamo deciso di avviare una ricognizione. I paesi che sono riusciti ad appiattire la curva (Corea del Sud, Taiwan, Singapore) hanno avviato il contact tracing immediatamente.
Il tracciamento degli spostamenti lederebbe la privacy dei malati.
Sono preoccupazioni legittime, ma le condivido solo in parte. In pochi giorni sono morte più di diecimila persone. La tutela della privacy trova un limite nella tutela della salute della comunità in cui viviamo. Si tratta di una rinuncia limitata e temporanea che può salvare delle vite. Purché vi sia trasparenza assoluta sul modo in cui saranno trattati i dati e sulla natura temporanea ed emergenziale del tracciamento.
Lei in questi giorni ha più volte denunciato la carenza di dati per l’analisi dell’emergenza.
Capisco la difficoltà del momento ma le istituzioni devono fornire più informazione: i ricercatori hanno bisogno di dati utilizzabili per stimare l’evoluzione dell’emergenza e capire quali interventi sono più urgenti. Sono necessari dati individuali sui ricoverati, sui pazienti con polmonite, su quelli soggetti a trattamenti intensivi, sui contagiati lasciati a casa, e sui malati con sintomi cui non viene effettuato il tampone. Dobbiamo conoscere le caratteristiche sociodemografiche di queste persone. Senza queste informazioni sarà più difficile programmare l’allentamento del lockdown è più difficile.