Benessere collettivo e individuale: quanto conta nelle politiche pubbliche?

di Anna Fabi

19 Agosto 2019 12:00

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Come ottimizzare le risorse pubbliche indirizzandole verso l'attenuazione dei danni sociali: riflessioni politico-economiche di Paolo Marizza*.

Come si misura la “felicità”? Cosa la promuove? Come la si agevola? Queste domande hanno impegnato generazioni di filosofi, sociologi, economisti, scienziati della vita. Alcuni di essi sostengono che sia possibile definire e misurare la felicità e individuare cosa lo determina. Le politiche pubbliche secondo loro oggi possono essere più puntualmente orientate e focalizzate nel perseguimento di questo obiettivo.

Ma quali sono i criteri con cui valutarne bontà e efficacia? Ogni buon criterio dovrebbe consentire di misurare gli effetti di diverse politiche, le une rispetto a quelle alternative.

Uno di questi potrebbe essere un criterio di “mercato”, ovvero la “disponibilità a remunerare” il servizio fruito. Ma molte politiche sono finalizzate alla produzione di beni pubblici, per i quali è difficile valutare tale disponibilità individuale. Inoltre, su tale disponibilità pesano in modo determinante e sproporzionato le valutazioni di persone e famiglie benestanti rispetto a quelle di altri strati sociali, peraltro sempre più articolati nella frammentazione delle società contemporanee.

Il prodotto interno lordo è un’altra misura distorcente: esclude molti aspetti importanti della qualità di vita e dà lo stesso valore a tutti i soldi, indipendentemente dal reddito del destinatario.

Bisognerebbe domandarsi perché si utilizzano misure indirette e imperfette di contributi alla felicità quando si potrebbe usare misure dirette. Come hanno sostenuto gli utilitaristi nel 19mo secolo, il più influente dei quali era il filosofo Jeremy Bentham, e come sostengono alcuni utilitaristi moderni, secondo i quali è possibile definire e misurare la felicità e individuare cosa la determina.

Uno dei concetti fondamentali alla base degli studi di economia è il concetto di utilità, intesa come “soddisfazione” derivante dal consumo di un bene per soddisfare un bisogno.

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In economia per “utilità” si intende la capacità di un bene o di un servizio di soddisfare un bisogno. L’utilità è quindi quella soddisfazione, quel benessere che deriva dal soddisfacimento di un bisogno attraverso il consumo di un bene o la fruizione di un servizio. Un bene o un servizio è quindi utile se procura “felicità”, “soddisfazione”.

Secondo questo approccio il fine di una società dovrebbe essere quello di massimizzare l’utilità sociale, al fine di ottenere “la felicità maggiore per il maggior numero di individui“.

Ma è evidente che l’utilità è soggettiva e allora, qual è il modo per misurarla direttamente? La risposta degli utilitaristi moderni è la “self-reported life satisfaction”, la soddisfazione di vita auto-riferita”, che si basa sulle preferenze e sui giudizi delle persone. Ma questo metodo fornisce risultati solidi sugli input rilevanti?

Il reddito spiega una piccola parte delle variazioni di felicità, sono le relazioni umane, in particolare quelle che implicano solidarietà, collaborazione e fiducia, che contano. La disoccupazione e la mancanza di progettualità e di aspettative di moiglioramento sono d’altro canto tra i fattori più penalizzanti. Ma questi moderni utilitaristi dicono che è il benessere mentale il fattore determinante più importante della soddisfazione del vivere, del ben-essere. Il miglior predittore di felicità nella vita adulta è il benessere emotivo nell’ infanzia e nell’adolescenza. Questo, a sua volta, è determinato dal contesto familiare ed educativo.

Essi affermano che la valutazione della “politica” fondata sulla creazione di benessere diventerà lo standard per valutare le politiche sociali.

C’è da sperare che la sperimentazione di nuove politiche sociali guidate da tali principi diventi la premessa per il cambiamento nell’allocazione di risorse pubbliche.

E’ lecito sollevare dubbi e perplessità al riguardo. Sarà difficile collegare in modo preciso molte scelte politiche al benessere della popolazione.

Tuttavia la convergenza delle nuove tecnologie che abilitano comunicazioni always on, senza soluzione di continuità spazio temporale, i social networks, la tracciabilità delle interazioni ed il monitoraggio di comportamenti d’acquisto e stili di consumo, la profilatura degli stili sociali, dei gusti, degli interessi e delle passioni a 360 gradi ad un livello di analiticità inimmaginabile fino a pochi anni fa, se venissero utilizzati non solo per monetizzare il valore di questa messe informativa a beneficio di logiche di business, ma anche per monitorare i fattori generativi di benessere per il bene comune, il compito sarebbe meno difficile.

Un nuovo approccio al benessere collettivo e individuale può essere visto in due modi diversi. Il percorso più ambizioso è quello di riconsiderare tutte le politiche dei governi rispetto al loro contributo al benessere sociale, misurato direttamente, alla fonte. Uno più limitato, ma forse più realistico potrebbe invece mirare a spostare le risorse, a margine, verso le aree di spesa/investimento che hanno maggiori probabilità di ridurre le cause di “malessere” sociale, individuate sempre alla fonte, come ad esempio il disagio psicologico e mentale e la solitudine.

Ciò che è possibile e realistico auspicare è che si possano identificare in modo relativamente chiaro le determinanti del “malessere” e anche identificare politiche che potrebbero alleviare il malessere in modo relativamente efficace. In altri termini concentrare le politiche sulla rimozione delle cause del malessere e dei suoi effetti.

In alcuni Paesi si sta riflettendo su come questo approccio di fondo potrebbe essere applicato alla revisione quali-quantitativa della spesa pubblica. Le priorità principali potrebbero consistere nell’aumentare le risorse per l’assistenza sanitaria fisica e mentale, nell’investire nel benessere dei bambini nelle scuole primarie e secondarie, nella creazione di nuova occupazione qualificata, nell’assistenza sociale per bambini, disabili e anziani.

Non è necessario adottare politiche di più ampio respiro per iniziare a perseguire questo spostamento di priorità verso l’attenuazione dei maggiori “danni sociali” fonti di malessere.

E dovrebbe essere un obiettivo trasversale alle forze politiche, che dovrebbero concordare su questo come l’obiettivo minimo per la politica in una società civile ed in uno Stato garante della riservatezza delle informazioni sensibili e del loro utilizzo per il bene comune.


*Articolo di Paolo Marizza, Docente Deams UniTS e Cofounder Innoventually