Si capisce: la pressione sull’immigrazione è talmente forte che il Movimento 5 Stelle deve recuperare lo spazio perso ma soprattutto rimettere al centro i suoi temi forti per non farsi ingoiare dallo sparring partner leghista, locomotiva dell’esecutivo. Temi che sono, tipicamente, “sociali”.
Così, il superministro Luigi Di Maio ha prima affrontato il fronte dei ciclofattorini delle piattaforme di cibo a domicilio – oltre alle visite, per esempio dagli operai della ex Bredamenarinibus – mentre con l’arrivo dell’estate punta alle pensioni:
Aumentiamo le minime con il taglio di quelle d’oro.
Così ha spiegato sul blog del Movimento sabato scorso. Titolo emblematico e punitivo, quello del suo intervento:
Quest’estate niente vacanze da nababbi per i pensionati d’oro.
Peccato che non si aumenterà granché, con quegli assegni.
Pensioni d’oro
Vogliamo finalmente abolire le pensioni d’oro che per legge avranno un tetto di 4.000/5.000 euro per tutti quelli che non hanno versato una quota di contributi che dia diritto a un importo così alto. E cambiano le cose in meglio anche per chi prende la pensione minima, perché grazie al miliardo che risparmieremo potremo aumentare le pensioni minime.
Un miliardo, è quanto conta di incassare il Ministro del Lavoro e dello Sviluppo Economico. Ma ci si può davvero ricavare così tanto da quei circa 30mila paperoni?
L’intervento non potrà che essere temporaneo. Una specie di gettone di solidarietà una tantum come quello del Salva Italia 2011, prorogato dal Governo Letta fino al 2016. Fra il 2013 e il 2016 circa 40mila pensionati che percepivano da 91.344 euro lordi in su (7.500 lordi mensili) hanno lasciato allo Stato il 6, 12 o 18% dell’assegno a seconda degli scaglioni.
Se al contrario la misura fosse definitiva, non avrebbe molte chance di costituzionalità e cadrebbe sotto le cause legali degli interessati. Per questo Di Maio parla di “una legge” che ponga un tetto massimo. Ma anche per le leggi dello Stato il rispetto della carta costituzionale non cambia. Anzi. Il crinale è strettissimo.
Veniamo ai soldi: altro che un miliardo. Secondo le stime firmato da Tabula, società di ricerca fondata da Stefano Patriarca, tecnico che ha fatto parte dei consiglieri economici di palazzo Chigi degli ultimi due governi, la riduzione di tutti gli eccessi superiori al presunto tetto dei 5mila euro potrebbe garantire una minore spesa di 210 milioni lordi (115 al netto di 85 milioni di minori imposte).
Un bel gruzzolo per cominciare a lavorare sulle pensioni più basse – in Italia una su quattro è sotto ai mille euro – ma bisognerà capire in quale chiave: le risorse non basteranno a portare tutti i pensionati ai 780 euro di “pensione di cittadinanza”.
Mentre il Pd, in campagna elettorale, aveva ipotizzato un intervento superiore al miliardo per aumentare tutte le minime a 750 euro e Forza Italia ne contava poco più di 4 per portarle a mille euro ma solo per 850mila pensionati, il governo Conte continua a fare conti che appaiono fantasiosi.
Simili conti sulla “pace fiscale”: secondo i calcoli dell’Osservatorio sui conti pubblici di Carlo Cottarelli, dei 650 miliardi che si spera di recuperare dal condono delle cartelle esattoriali sotto i 100mila euro lo Stato potrebbe riportare in cassa al massimo 51 miliardi di crediti. E con non poco sforzo.
D’altronde è difficile, per l’opinione pubblica, approfondire certi labirinti come la previdenza sociale: qualsiasi cosa si dica diventa tout court verità.
La faccenda pensioni d’oro ha tuttavia del grottesco: fra quei 30mila ci sarà senz’altro chi incassa un sacco di soldi senza averne diritto sghignazzando su chi non può mettere in tavola il pranzo con la cena. Immaginare un contributo di solidarietà più o meno stabile che superi le forche caudine della Consulta ha un senso di giustizia percepita, come il ricalcolo dei vitalizi per gli ex parlamentari.
Ma pensare (e raccontare) che con i tagli di quelle poche persone si possa raddrizzare la vita di 6 milioni di pensionati sotto i mille euro è (purtroppo) fantafinanza pubblica.
Contributivo per tutti
L’impressione è che nel post – e nella comunicazione sull’argomento di queste settimane – si tenti un lavoro preparatorio alla contro–riforma delle pensioni Fornero.
Tuttavia, l’obiettivo per rendere più leggero il costo della “rifornero”, chiamiamola così (intorno ai 15/20 miliardi di euro a regime), in cambio (forse) di un’uscita immediata o anticipata condurrà a un colpo di spugna per il quale molti lavoratori ci perderanno a causa del ricalcolo dell’assegno totalmente con meccanismo contributivo.
A pagarne le conseguenze sarebbero i lavoratori qualunque, non i nababbi. Tutti quelli che per legge avevano la certezza che quel meccanismo sarebbe stato considerato solo sull’anzianità maturata dopo il 2012: il sistema retributivo si applica infatti fino al 31 dicembre 2011 per coloro che al 31 dicembre 1995, all’epoca della riforma Dini, vantavano almeno 18 anni di contributi.
Quota 100 opzionale?
Fra l’altro, sembra di capire che, a fronte di questa penalizzazione, chi ha già 41 anni di contributi ma non ha 64 di età potrebbe dover rimanere a lavoro a vantaggio della sbandierata “quota 100”, quella che prevedrebbe per il 2019 l’uscita immediata di chi ha 64 anni di età e 36 di contribuzione.
E tutti quelli che di anni ne hanno magari 61, 62 o 63 ma magari toccano o superano i 41 anni di versamenti? Aspetteranno, a vantaggio di chi è più vecchio di un anno o due ma ha lavorato ben cinque anni di meno? Mica male come giustizia sociale, se davvero così fosse.
L’operazione, di questi tempi, è trasformare anche quei lavoratori in nemici pubblici.