Il forno grilloleghista sta per chiudersi. C’è un pollo troppo ingombrante da cucinare, dentro. Si chiama Silvio Berlusconi e difficilmente farà un passo indietro. Si è incastrato e rischia di bruciare tutto. A prescindere dall’eventuale risultato delle elezioni regionali in Molise e Friuli-Venezia Giulia. Più che rompere l’alleanza, dopo quella tornata Matteo Salvini potrebbe semmai tentare di ingoiarla, procedendo sulla strada di un partito unico di centrodestra che possa prepararsi per future elezioni. Ma per il momento rinunciare alla potenza mediatica ed economica dell’ex cav. è sostanzialmente impossibile. Tuttavia dal Movimento 5 Stelle – lo hanno dimostrato anche alcuni sondaggi degli ultimi giorni – di Forza Italia non vogliono sentirne parlare. Da qui lo “stallo” di cui ha parlato Sergio Mattarella prima di concedere qualche altro giorno di riflessione.
Eppure il Movimento si sta giocando, in questa estenuante pseudotrattativa di governo, un bel pezzo della sua credibilità politica. Per dirla in altre parole, non può permettersi di non andare – in qualche forma – al governo. Le aspettative sono elevatissime, specialmente dai cittadini del Mezzogiorno che l’hanno votato in massa. Spesso – qui c’è il primo ostacolo spinoso – governato proprio da quel Pd verso cui ora occorre alzare il pressing. Dallo studio alla Vetrata bisognerà dunque uscire con un accordo che veda i 5 Stelle nell’esecutivo. Per questo è sempre più possibile che l’altro forno che rimarrà acceso, quello coi dem, alla fine possa partorire qualcosa di commestibile.
Entro 24 ore il presidente Mattarella lancerà il primo sasso nello stagno. Non sarà quello più grosso, perché serve ancora un po’ di tempo per chiudere il forno di destra e alzare la temperatura in quello di sinistra, e probabilmente coinvolgerà la presidente del Senato Alberti Casellati, esponente di spicco di Forza Italia, per prendere di petto la questione. In un certo senso, per aiutare Di Maio a chiudere definitivamente un fronte: “Aspetto qualche altro giorno, poi uno di questi due forni si chiude” ha detto il capo politico del M5S a “Otto e mezzo”. D’altronde, neutralizzare Berlusconi è pressoché impossibile e un riconoscimento formale come interlocutore è complesso che arrivi, anche con la mediazione della seconda carica dello Stato: la trattativa si è già deteriorata di molto, per gli standard grillini. Più in basso di così non si andrà, da quella parte.
In questo senso la linea dura di questi primi 50 giorni tenuta dal Pd – da molti contestata – ha pagato e soprattutto ha avuto una ratio politica. Primo perché i dem sono usciti sconfitti dalle urne del 4 marzo e dunque non avrebbe avuto senso che si tuffassero in trattative di governo prima di altri. Secondo perché era giusto che esplodesse in tutto il suo carattere grottesco l’incompatibilità di fondo di quel presunto governo Frankenstein: tanti punti in comune, come abbiamo visto in altre occasioni, ma anche l’inconciliabile Dna dell’elettorato grillino, ben più verde e bruno (e anche un po’ rosso) che azzurro. Eppure se il centrodestra “non vincitore” può permettersi di tornare al voto trainato dal trattore Salvini che continua a crescere nei sondaggi, questo è un po’ meno vero per il Movimento 5 Stelle su cui grava un peso pachidermico.
“Sentitemi, Mattarella ci metterà alle strette – ha spiegato il colonnello leghista Giancarlo Giorgetti – prima darà mandato alla Casellati per una esplorazione, poi, visto che non se ne farà nulla, lo schema cambierà. E scommetto che finirà con un governo di M5S con l’appoggio esterno del Pd”.
A largo del Nazareno sanno che, nonostante gli sgarbi parlamentari delle ultime settimane con l’occupazione di tutte le cariche di garanzia, prima o poi bisognerà mettersi a parlare con i 5 Stelle. Molti, come Dario Franceschini, lo ripetono dal primo giorno, in preda a un’insofferenza governista a dire il vero eccessiva. Ma nessuno si illuda: se quel forno funzionerà, lo farà alle condizioni di Matteo Renzi: nonostante la scomparsa mediatica è l’ex sindaco di Firenze il vero e unico manovratore dei gruppi parlamentari, che fanno quasi totalmente riferimento a lui.
Fra le condizioni per un esecutivo demogrillino – al momento solo fantapolitica, ma obbligata dagli eventi – c’è anzitutto il nome di Di Maio. Il leader di Pomigliano d’Arco dovrà farsi da parte a favore di Roberto Fico o, più probabile, di una personalità terza che, come dicono molti in queste ore, ricordi quella del compianto Stefano Rodotà. Poi si parlerà di programma, per esempio col rimescolamento del reddito di cittadinanza con quello d’inclusione. Oltre, ovviamente, alla trattativa diretta con lo stesso Renzi che, a un certo punto, potrebbe perfino decidere di ritirare le dimissioni e gestire la fase dell’accordo. Che sapore avrà la pagnotta uscita da quel forno, però, è impossibile saperlo.