La riforma delle pensioni continua a mietere vittime: in ballo non c’è solo la questione degli esodati ma anche quella dei contributi silenti di lavoratori, (soprattutto donne) che hanno cessato l’attività lavorativa ma hanno scelto di versare contributi volontari all’INPS con l’obiettivo di ottenere, con un totale di 15 anni, l’anzianità contributiva minima per accedere alla pensione di vecchiaia.
La riforma delle pensioni del 1993 concedeva a chi avesse versato almeno 15 anni di contributi entro il 1992 o a chi entro la stessa data avesse iniziato a versarli di mantenere il requisito dei 15 anni di contribuzione.
Le precedenti riforme delle pensioni avevano preservato questo diritto, mentre quella messa a punto dal premier Mario Monti e dal ministro del Welfare Elsa Fornero ha cambiato anche per loro i requisiti per l’accesso alla pensione.
Ora, invece di 15 anni di contributi l’INPS ne richiede 20, ben cinque in più. A questo punto rimangono solo due alternative: continuare a versare contributi per altri 5 anni oppure perdere i soldi versati a titolo lavoratori o e/o volontario e di conseguenza il diritto alla pensione (contributi silenti).
Una situazione complicata, spiega la segretaria confederale della Cgil, Vera Lamonica, anche perché «si tratta in particolare di donne e uomini da lungo tempo inoccupati, senza alcuna forma di reddito e privi di qualsiasi possibilità di rientrare nel mercato del lavoro».
Per protestare contro questa situazione e chiedere al Governo di salvaguardare chi ha fatto sacrifici per anni pur di ottenere un assegno di pensione, anche minimo, è stata indetta una raccolta di firme da parte di SPI e INCA Cgil con la quale si chiede ai parlamentari di ogni schieramento per chiedere di salvaguardare il diritto ad andare in pensione di vecchiaia per chi ha raggiunto i requisiti minimi di contribuzione.
In più SPI e INCA Cgil hanno anche inviato una lettera ai parlamentari liguri e aperto un contenzioso con l’INPS, perché «la circolare INPS, forzando la stessa interpretazione della norma, imponeva a costoro di arrivare a 20 anni di contribuzione per avere diritto alla pensione. Rispondendo ad una interpellanza parlamentare il viceministro Martone è stato costretto a riconoscere tale forzatura. Ora l’INPS deve correggere l’interpretazione data e sanare una palese ingiustizia», ha precisato Lamonica.