Passo avanti per la riforma dei contratti per i lavoratori dipendenti, ma stesso scenario: l’intesa sul nuovo modello contrattuale è stata siglata da Confindustria, Cisl e Uil ma non dalla Cgil, secondo cui la riforma così come prospettata porterebbe alla riduzione degli spazi contrattuali, senza peraltro tenere conto dell’inflazione reale nel contratto nazionale.
Di fatto, l’intesa ratifica proprio quell’accordo quadro – raggiunto lo scorso 22 gennaio – tanto aspramente criticato dalla confederazione guidata da Guglielmo Epifani.
In base al nuovo modello il contratto nazionale avrà durata triennale. Ciò varrà anche per il contratto aziendale, con lo scopo di stringere il legame proporzionale tra incrementi di salario e produttività.
Un grave errore per Epifani ma non per Emma Marcegaglia, leader di Confindustria, secondo cui legare gli aumenti di stipendio agli aumenti di produttività è l’unico modo per «evitare il far west dei rinnovi contrattuali».
Per quanto riguarda le garanzie sugli incrementi salariali, con la riforma si passa da inflazione programmata a indice previsionale Ipca (che escluderà i prezzi dei beni energetici importati), adottato anche per ricalcolare l’eventuale scostamento da recuperare tra inflazione prevista e inflazione reale.
Ultima novità, i tavoli per ridiscutere i termini dei contratti si apriranno 6 mesi prima della loro scadenza (non più 3) e la cosiddetta “tregua sindacale” si estende a 7 mesi complessivi.
Ma parliamo di stipendi: secondo le rilevazioni della Cgia di Mestre (Associazione Artigiani e Piccole Imprese), non ci sono state variazioni nei redditi da lavoro dipendente negli ultimi 10 anni (1997-2008). Quindi, il dato vale per uno scenario precedente alla crisi.
Questo significa che, in proporzione, il potere d’acquisto sarebbe rimasto fino al 2008 invariato. Anzi, le fasce deboli godrebbero al momento di qualche agevolazione in più: +484 euro per i single e +810 euro con un figlio a carico.
Il tutto, alla luce degli aumenti contrattuali e delle novità fiscali: addizionali locali, assegni familiari, rimodulazione scaglioni di reddito e aliquote.
Ma perchè, allora, a partire dagli anni ’80 è comincata a calare così fortemente l’incidenza dei redditi da lavoro sulla ricchezza nazionale?
Secondo Giuseppe Bortolussi della Cgia, tale declino «è da ricondursi alla sostanziale impennata delle imposte indirette, la cui incidenza sul reddito nazionale è aumentata di oltre 15 punti percentuali».