Il problema del ritardo nei pagamenti è tra gli aspetti più critici per il bilancio aziendale e potenzialmente può portare al fallimento di qualsiasi impresa.
Tornato alla ribalta in queste settimane, purtroppo inasprisce il già difficile clima. Di fatto, esiste un circolo vizioso – che ruota attorno al cosiddetto credit crunch – per il quale una Pmi che produce beni e servizi non può più permettersi di onorare i conti con i propri fornitore ed è quindi costretta a chiudere la produttività.
Se un committente ritarda il pagamento, provoca uno slittamento degli introiti per un periodo di tempo non prevedibile. Se il fenomeno si moltiplica, il trend impedisce alle aziende di pianificare il business e, nella peggiore delle ipotesi, di chiedere ulteriori prestiti per poter andare avanti.
Basti pensare, ad esempio, che nel rapporto con le Pubbliche Amministrazioni è necessario attendere in media 135 giorni per veder salire il conto in banca, con punte che raggiungono i 400 giorni al Sud, mentre la media europea è di 65 giorni.
I non paganti, se così li vogliamo chiamare, sono tuttavia anche le grandi aziende, che spesso attendono il momento giusto per eseguire il saldo con i migliori vantaggi.
Spesso quindi le Pmi sono costrette a rapportarsi con gli istituti di credito, chiedendo ulteriori prestiti. Si evidenzia che, dai calcoli delle banche locali, circa il 40% delle nuove posizioni aperte nell’ultimo mese rappresenta una diversificazione creditizia di Pmi e artigiani che hanno già contratto un fido con altri istituti e che si rivolgono nuovamente alle banche per ottenere nuova liquidità.
A peggiorare la situazione, la tendenza delle banche stesse a richiedere proprio alle Pmi il rientro più rapido e a definire incrementi degli spread. Di fatto è a questo punto che si alimenta il circolo, a causa dell’obbligo indotto per queste Pmi di ritardare i pagamenti.