Ricambio Generazionale, Trasmissione d’Impresa, Passaggio Generazionale… le parole sono pietre, soprattutto quando incombono su ciò che ha dato senso alla vita di un imprenditore – uomo o donna che sia – e della sua famiglia. Per questo bisogna sceglierle con cura, affinché possano essere vissute come un solido gradino verso il nuovo e non una lapidazione del vecchio, come spesso accade. Non stupisce che vi sia una forte resistenza a pianificare il passaggio generazionale: è un po’ come chiedere all’imprenditore senior di andare a scegliersi la bara, o come recita una salace battuta: «L’imprenditore prende coscienza del problema del passaggio generazionale al primo infarto». Il gergo aziendalistico corrente è complice di questa tendenza all’evitamento, poiché si limita
ad un’analisi tecnica e manageriale di corto respiro – dettata com’è dai ritmi veloci del mercato – che ignora questi aspetti “caldi” e profondamente umani. Essa fatica a cogliere appieno la complessità di una fase cruciale e delicatissima del ciclo di vita di un’impresa: serve un approccio nuovo e capace di riconoscere e decifrare la sofisticata alchimia di relazioni che costituiscono la trama dell’impresa come “organismo vivente” in cui ruoli aziendali e quote societarie s’intrecciano con i legami di parentela e/o di amicizia.
Trascurare questo livello relazionale, trattando l’impresa come una mera macchina economica è, a nostro avviso, una delle ragioni principali dell’alto tasso di mortalità aziendale riportato nelle statistiche ufficiali: secondo l’Unione Europea, 2 aziende su 3 chiudono nei 5 anni successivi al passaggio generazionale e solo un’impresa su 5 arriva alla terza generazione. Stiamo parlando di 600.000 posti di lavoro che sono a rischio annualmente a causa di una maldestra gestione del problema: una grave “emorragia” per il tessuto socioeconomico europeo e conseguentemente anche italiano.
Crediamo dunque che il cambiamento possa cominciare proprio dalla terminologia, parlando di continuità competitiva d’impresa, così da porre l’accento sull’opportunità di “r’innovazione” che il passaggio generazionale porta con sé: come occasione di sviluppo aziendale.
Non è un caso che nella nostra ultra-quarantennale esperienza a servizio delle PMI abbiamo riscontrato una maggiore propensione a governare il passaggio generazionale tra le imprenditrici: esse, in quanto madri, vivono il passaggio del testimone come la naturale prosecuzione del processo creativo che hanno innescato. Diversamente, gli imprenditori uomini tendono a vivere il passaggio generazionale come un tramonto personale e faticano a leggere in esso la sfida eccitante di preparare un nuovo inizio, nell’ottica di una continuità competitiva dell’impresa.
È dunque necessaria un’opera di sensibilizzazione vasta e capillare, volta a cambiare l’atteggiamento corrente nei confronti del passaggio generazionale. Tale sensibilizzazione trova negli enti territoriali il suo naturale agente. Infatti le associazioni di categoria, ispirate per statuto da principi di condivisione di problematiche comuni ai loro membri, possono svolgere un ruolo chiave nel promuovere occasioni di confronto: orizzontale tra imprenditori senior e verticale tra imprenditori senior e junior.
Questi incontri – che chiamiamo dis-seminari – si sono rivelati estremamente efficaci nel favorire una crescita della consapevolezza. Grazie ad essi, i partecipanti si accorgono di quanto alcune problematiche, che essi considerano personalissime e uniche, siano invece molto comuni tra i loro pari. Non solo: essi diventano anche consapevoli della necessità di elaborare un piano d’azione a medio-lungo termine, per governare il passaggio generazionale come un processo pluriennale. Cosa ben diversa da un mero passaggio di proprietà che si esaurisce in pochi giorni con qualche firma dal notaio. La nostra esperienza con centinaia di PMI ci dice che un passaggio generazionale dura in media 5-8 anni, poiché questo processo implica una vera e propria trasformazione della cultura aziendale.
Dall’analisi comparata di questi casi abbiamo distillato alcuni fattori cruciali nel determinare il successo di un piano di continuità competitiva d’impresa:
- Leadership esterna: il focus è sulle prospettive di essere leader di nicchia sul mercato: proiezioni per prodotti e servizi con una spinta a rinnovarsi verso il cliente e il mercato;
- Leadership interna: il focus è sulla presenza di una figura individuale o collettiva di leader per l’impresa nel futuro – papabile punto di riferimento per collaboratori ed interlocutori interni ed esterni; donde l’attenta ricerca di una figura di possibile continuazione a cui dare spazio, anche se ancora in formazione;
- Coesione orizzontale: il focus è sull’esistenza o meno di una sintonia operativa nelle fasi di trasmissione e nel nuovo governo fra Trasmittenti e potenziali Continuatori, e loro più stretti collaboratori; si rafforza la consapevolezza che, di fronte alle minacce poste dal mercato, bisogna far di tutto per andare d’accordo, costruendo sui fattori di intesa piuttosto che litigare esaltando le divergenze;
- Intesa strategica: il focus è sull’intesa strategica, di squadra, sulle modalità operative, la vision, la mission, e sulle scelte gestionali nei vari settori dell’impresa (finanza, marketing, commerciale…); si mette a fuoco l’esigenza di formarsi sulle nuove tecniche di governo dell’impresa, come condizione di competitività rispetto a coloro che le stanno già mettendo in pratica;
- Consapevolezza del patrimonio tacito: il focus è sullo spirito imprenditoriale e il patrimonio tacito, per lo più apportato dalla figura trasmittente: quel patrimonio che viene dato per scontato e non viene certo riportato a bilancio, per quanto costituisca ancor più che un asset importantissimo, l’identità stessa dell’impresa che viene trasmessa; far mente locale sui propri punti di forza è occasione per consolidarli, ma anche per costruirne di nuovi;
- Dinamismo organizzativo e orientamento all’innovazione: è l’antidoto alla classica affermazione suicida: «Abbiamo sempre fatto così, ed è andata bene; non si vede perchè si dovrebbe cambiare». Il focus è sulla disponibilità ad apportare cambiamenti anche strutturali, e sull’indice di evoluzione tecnologica del mercato di nicchia rispetto ai competitori; è inoltre sull’approccio mentale di fronte all’innovazione: adottarla per primi, per secondi, o più tardi.
- Tecniche e strumenti manageriali aggiornati: focus sull’esistenza o meno di una cultura manageriale all’interno dell’azienda, dotata di moderni e aggiornati supporti. Prendere atto dei propri limiti serve spesso a sdoganare competenze che alcuni giovani possiedono, essendo però vittime della diffidenza dei fondatori, che preoccupati di veder distrutto in poco tempo ciò che hanno costruito in tanti anni, rendono più viscoso l’indispensabile cambiamento.
- Tecnicalità di trasmissione funzionanti: focus sull’importanza di un attento esame preventivo, con l’assistenza di specialisti competenti, su come effettuare il trasferimento sotto il profilo fiscale, legale, societario, finanziario.
Questi criteri costituiscono lo scheletro del Kit.Brunello, un articolato questionario di 90 domande volte a comprendere con precisione lo stato di un’impresa in fase di passaggio. Il Kit.Brunello è stato riconosciuto ufficialmente come Buona Pratica Europea già nel 1998 e tale riconoscimento è stato confermato nel 2009 estendendolo al Kit.Brunello.System, un insieme di 15 strumenti – molti gratuiti – sviluppati attorno al Kit.Brunello per affrontare aspetti specifici del problema. Per un assaggio, potete cimentarvi subito con lo ShortKit Brunello: 10 veloci domande online per un primo orientamento strategico.