«Le aziende meridionali devono puntare sulle aggregazioni, anche utilizzando lo strumento delle reti, per sbarcare all’estero e beneficiare di riflesso di una migliore redditività»: così si è espresso Domenico Mauriello del Centro studi Unioncamere sul binomio Sud ed Esportazioni, citando idati dell’Osservatorio sui bilanci delle società di capitale del Mezzogiorno, nel biennio 2006-2008 per avere un quadro obiettivo e non inficiato da periodi di espansione del mercato globale (quale il biennio 2006-2007) o, al contrario, dalla crisi (come nel 2008).
Due parametri fondamentali sono stati utilizzati per l’analisi: il ROE (Return On common Equity – indicatore di profittabilità in grado di esprimere il rendimento del capitale di rischio) e il ROA (Return On Assests – indicatore della redditività che rappresenta il rapporto tra utile netto e totale dell’attivo tangibile).
Per il primo si è notato che le imprese che non esportano hanno avuto un saldo negativo per due anni (-1,2% e -0,9%) e positivo in un solo anno (+0,4%), mentre le imprese che fanno Export hanno potuto contare su tre saldi positivi (+2,8%, +5,3% e +1,85%). Il secondo parametro si è attestato tra il 3% e il 4% per le imprese esportatrici, tra l’1,7% e il 2,5% per quelle non esportatrici.
Le differenze sono evidenti e, secondo Unioncamere, si spiegano alla luce del fatto che il volume di affari inferiore delle imprese che non esportano non si manifesta tanto sulla gestione corrente (e ciò spiega perché il Mol è simile nelle due tipologie d’impresa), quanto sulla possibilità di rimpinguare il capitale investito rendendolo, tra l’altro, remunerativo e di accedere a risorse esterne.
Presidiare mercati esteri, molto spesso in fase di sviluppo o comunque meno saturi dei nostri, pur comportando maggiori investimenti quindi finisce per premiare le imprese in termini di redditività e quindi di ricchezza.
A corroborare questa tesi concorrono anche i dati sulle dimensioni delle imprese: le imprese del Mezzogiorno che operano su mercati esteri sono circa un terzo del totale (5.700 su 17.000), ma se guardiamo alla forza lavoro impregnata ecco che i numeri si invertono, visto che chi esporta dà lavoro a 200.000 addetti, chi non lo fa a 160.000.
Per quanto concerne il fatturato invece, l’analisi sottolinea che se nel caso di attività che rimangono all’interno dei confini nazionali ben il 90% non guadagnano più di 2 milioni di euro l’anno, nell’altro caso questa fascia si riduce al 45%. Allo stesso modo il fatturato medio è di 10 milioni di euro l’anno per chi esporta, otto volte più basso per chi non lo fa.
Facendo un raffronto sul piano geografico si scopre che l’Export al Mezzogiorno è cresciuta del 17,8% nel 2010 (mentre nel Centro-Nord lo ha fatto meno, con circa tre punti), trainata soprattutto dal settore dei beni intermedi con un +22%, e dai beni strumentali con un +20,5%, ma frenata dalla scarsa crescita di beni di consumo (+3,7% per i beni durevoli, +10,8% per quelli non durevoli), mentre la regione che è cresciuta maggiormente è stata la Sicilia (+42%) seguita da Puglia (+19,6%) e Campania (+17,9%).
«Accrescere in modo adeguato gli investimenti – si legge nel rapporto di Unioncamere – richiede per definizione l’apporto di fonti di finanziamento reperite al di fuori del perimetro aziendale, ed è un processo essenziale per implementare funzioni diverse dal puro manufacturing e sfuggire così alla pressione competitiva dei paesi di nuova industrializzazione».
Un altro modo però c’è. E qui entrano in gioco il contratto di rete. «Secondo le nostre stime, il sistema Paese ha le potenzialità di portare a 400mila il numero di imprese esportatrici, raddoppiandone quindi la quota» ha spiegato il Presidente di Unioncamere. Come? Con le reti di imprese. I presidi nazionali e le 72 Camere di commercio italiane all’estero stanno operando per promuovere questa soluzione, che consolida la base patrimoniale dei soggetti (aggregazioni di Pmi) rendendole più competitive e in grado di “spuntare” prezzi migliori nelle attività che si snodano lungo tutta la filiera.
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