Esiste dagli anni Settanta, ha avuto avversa fortuna e forse solo oggi, con la scusa della crisi, sta tornando a rappresentare una strategia che paga. Nonostante la mentalità miope di molte aziende.
È il telelavoro, o lavoro a distanza, lavoro virtuale, teleworking, telecommuting. Termini e definizioni si sprecano, ma si tratta sempre di svolgere attività di lavoro da un luogo diverso dalla sede d’ufficio grazie al supporto di tecnologie informatiche (sempre più sofisticate) in maniera indipendente dalla localizzazione geografica aziendale.
Nonostante molte aziende tendano a negare l’evidenza, il telelavoratore è un normale impiegato a tempo indeterminato che svolge la maggior parte del proprio lavoro da casa e resta in contatto con capo, colleghi e ufficio tramite strumenti IT e Web 2.0 (email, chat e IM, chiamate VoIP, ecc.).
Regolato da un apposito contratto, in un’accezione più ampia si può estendere a manager, collaboratori e autonomi, abbracciando un concetto più dinamico ed evoluto del lavoro (e-work).
Le tipologie specifiche variano infatti moltissimo e vanno ben al di là del telelavoro domiciliare: esiste il telelavoro mobile (tipica dei venditori); presso centri satellite o telecentri (sedi ad hoc equipaggiate con strumenti TLC e servizi condivisi da lavoratori di una stessa impresa o di imprese diverse); quello office-to-office (il telelavoratore fa parte di un team dislocato sul territorio e operante a distanza), ecc.
In realtà, sul piano pratico sono rari i telelavoratori “puri” e molto più diffusi quelli “misti” – in cui queste tipologie si combinano sia reciprocamente sia con il lavoro cosiddetto tradizionale – complice anche l’atavica diffidenza del datore di lavoro a concedere libertà di azione e flessibilità operativa al proprio dipendente, senza poterlo sorvegliare per le sue otto ore.
Nonostante la recalcitrante volontà a stipulare un contratto di telelavoro con retribuzione equiparata ai colleghi in sede, questa pratica sta tornando a diffondersi, ma ancora con buste paga decurtate.
La cosa interessante è che, finalmente, sta mutando molto anche l’accezione che gli veniva riservata: da strumento di responsabilità sociale dell’azienda a mezzo per migliorare le performance aziendali.
In fondo i vantaggi per l’impresa sono molti: aumento della produttività, riduzione dei costi, incremento della motivazione dei lavoratori, miglioramento dell’efficacia del servizio, abbassamento del turnover aziendale.
Eppure i tassi di adozione italiani sono tra i più bassi a livello europeo. Abbondando le varianti e mancando una definizione univoca di telelavoro, anche le statistiche variano, ma una cosa è certa: l’Italia detiene la maglia nera in Europa.
Nel 2008 i telelavoratori italiani erano circa 800mila, in leggero aumento rispetto all’anno precedente: il 3,5% della forza lavoro complessiva. In Regno Unito, Germania e Danimarca è il 20% e in Finlandia, Olanda e Svezia oltre il 27%. Anche se è previsto un raddoppio da qui al 2011, saremo ancora lontani dalla media europea.
Tra le Pmi la diffusione del telelavoro è decisamente inferiore: da studi recenti risulta una pratica minoritaria e di nicchia, eletta solo da imprese giovani e aperte alle possibilità offerte dalle nuove tecnologie e dal Web.
A cosa è dovuto questo ritardo? Da molti è attribuito al modello economico, poco incline, in cui Manifatturiero e piccola impresa – dove la presenza fisica del lavoratore è imprescindibile – la fanno da padrone. Molti altri propendono sulle forti resistenze culturali, che vuole a tutti i costi esercitare un controllo fisico sulla effettiva produttività dei lavoratori, anche se tutte le statistiche dicono esattamente il contrario.
Eppure i progressi tecnologici rendono oggi molto più estesa la disponibilità del telelavoro, permettendo la condivisione totale dei documenti e la comunicazione del tutto sincrona, sia scritta che audio-video, riuscendo così a contrastare alcune delle resistenze che molti manager e molte aziende tradizionalmente muovono contro il telelavoro.
Quali sono le professioni più diffuse in questo ambito? Le condizioni necessarie restano due: poter lavorare senza vincoli di presenza fisica e che la materia prima del proprio lavoro sia fatta di elementi intangibili, e cioè informazioni: seguendo questo criterio, tutte le attività lavorative che non richiedono la produzione di beni materiali sono candidate potenziali, soprattutto se richiedono un alto grado di lavoro intellettuale piuttosto che manuale, con compiti gestibili individualmente o comunque suddivisibili in pacchetti di lavoro e che producono risultati misurabili.
Per informazioni aggiornate e dettagliate è possibile consultare Telelavoro Italia, nell’ambito del progetto europeo European Telework Development.