I CCNL possono prevedere intervalli obbligatori ridotti fra contratti a termine – più brevi rispetto a quanto previsto dalla Riforma del Lavoro, ossia 90 e 60 giorni: lo stabilisce una circolare ministeriale (27/2012) che chiarisce l’applicazione della nuova integrazione sulla normativa in materia, introdotta con il Decreto Sviluppo.
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Una precisazione annunciata dal ministro del Lavoro Elsa Fornero e attesa in veste di decreto interministeriale, arrivata invece come circolare interpretativa: le modifiche sull’applicazione delle pause tra rinnovi contrattuali sono demandate alla contrattazione collettiva, allungando di fatto i tempi.
La patata bollente dei 400mila contratti a termine in scadenza entro l’anno rischia dunque di trasformarsi in cessazione del rapporto in caso di rigida applicazione della pausa obbligatoria di 90 o 60 giorni. Certo è possibile che, visto che la circolare del ministero ha un chiarissimo valore interpretativo, la situazione si possa ritenere sostanzialmente risolta, indipendentemente dagli strumenti e dai tempi tecnici necessari per prendere le relative decisioni contratto per contratto.
I riferimenti normativi
L’allungamento della pausa obbligatoria fra contratti a termine è stata introdotta dalla Riforma del Lavoro – comma 9, lettera g, dell’articolo 1 (scarica il testo della Riforma Fornero): 90 giorni di pausa fra contratti a termine (dai precedenti 20 giorni), 60 giorni (da 10) in caso di contratti fino a sei mesi.
Intervalli ridotti (30 e 20 giorni) sono ammessi per contratti legati a: avvio di una nuova attività, lancio di un prodotti e servizi innovativi, implementazione di un rilevante cambiamento tecnologico, fase supplementare di un significativo progetto di ricerca e sviluppo, rinnovo o proroga di una commessa consistente.
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Nel comma 1 lettera a dell’articolo 46 bis del Decreto Sviluppo (Dl 83/2012 convertito con la legge 7 agosto 2012, n. 134), i termini ridotti a 30 o 20 giorni trovano applicazione anche «in ogni altro caso previsto dai contratti collettivi stipulati ad ogni livello dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale».
La circolare del ministero
Su tutto questo fa definitivamente chiarezza l’interpretazione contenuta nella circolare ministeriale: «in primo luogo – si legge – gli accordi interconfederali o di categoria ovvero, in via delegata, a livello decentrato, possono ridurre la durata degli intervalli per esigenze riconducibili a ragioni organizzative qualificate, legate all’avvio di una nuova attività, al lancio di un prodotto o di un servizio innovativo eccetera». In tali casi «la contrattazione è sollecitata a regolamentare tali fattispecie proprio in ragione di una possibile iniziativa di carattere sostituivo» del ministero, il quale «sempre sulla base delle citate ragioni organizzative qualificate, può agire in via amministrativa con apposito decreto per puntualizzare la casistica di cui sopra».
Quest’ultima precisazione si riferisce al fatto che la Riforma del Lavoro prevede esplicitamente (sempre al comma 9 dell’art. 1), che «in mancanza di un intervento della contrattazione collettiva» il ministero del Lavoro, decorsi dodici mesi dall’entrata in vigore della legge (quindi dal 18 luglio 2013), sentite le organizzazioni sindacali e datoriali, provvede a individuare le specifiche condizioni in cui operano le riduzioni previste delle pause fra contratti a termine.
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Per quanto riguarda invece «il riferimento ad ogni altro caso previsto dai contratti collettivi di qualsiasi livello», specifica la circolare del ministero, questo «rende comunque valida ogni altra ipotesi di riduzione degli intervalli da parte della contrattazione nazionale, territoriale o aziendale, anche in ipotesi diverse e ulteriori rispetto a quelle legate ai processi organizzativi sopra considerati, senza che in tal caso sia però previsto un ruolo sostitutivo del ministero».
Quindi, il ministero interverrà eventualmente, in mancanza di accordi collettivi, per precisare meglio i diversi casi di esigenze organizzative che possono comportare la riduzione della pause. Gli accordi collettivi possono anche prevedere di accorciare le pause, sempre a 30 o 20 giorni, senza che ci siano particolari esigenze organizzative, ma se questo non succederà non ci sarà alcun intervento specifico del ministero.
I tempi e i 400mila contratti in scadenza
Potrebbe esserci qualche perplessità sull’effettiva portata risolutiva di questa circolare perché al momento i contratti collettivi non prevedono deroghe alle pause fra contratti previste dalla Riforma. Il problema è rilevante perché l’accorciamento delle pause fra contratti è una richiesta pressante delle imprese, in vista come detto della scadenza di 400mila contratti a termine entro fine anno, che altrimenti sono considerati a rischio.
Ma la circolare ministeriale in effetti parla di “contratti collettivi di qualsiasi livello”, il che significa che non c’è bisogno di aspettare i rinnovi nazionali, bastano accordi a livello territoriale o anche aziendale. E si può aggiungere che quello della riduzione della pause fra contratti è un punto su cui non ci sono frizioni con i sindacati. Dunque, sostanzialmente tutte le parti sono d’accordo, la circolare ministeriale individua con precisione gli strumenti da utilizzare per sanare anche formalmente la situazione, ma a questo punto sembra proprio che ci vogliano accordi specifici fra le parti sociali.