Se nella vostra azienda vi è un lavoratore dipendente che negli ultimi anni è passato dal pubblico al privato, non sarebbe raro il caso in cui gli venisse recapitata una lettera dell’INPS con la richiesta di versare somme esorbitanti per pagare la ricongiunzione dei contributi.
Se poi si tratta di una lavoratrice, che magari vorrebbe andare in pensione di vecchiaia a 60 anni (che ormai sono diventati 62) approfittando degli ultimi anni in cui è possibile nel privato (l’età pensionabile sale a 66 anni per tutti dal 2018), la situazione è anche peggiore.
Il noto problema è rappresentato dalla legge 122 del 2010, che prevede l’obbligo di pagare i contributi in caso di ricongiunzione, ad esempio dall’INPDAP (l’istituto previdenziale dei dipendenti pubblici), all’INPS (l’istituto nazionale di previdenza a cui versano i contributi i dipendenti del settore privato).
Fino all’entrata in vigore di questa legge dell’estate 2010 il trasferimento dei contributi da una gestione all’altra avveniva gratuitamente, e dunque non cambiava nulla per il calcolo dei contributi versati ai fini pensionistici.
La 122 del 2010, invece, all’art. 12, nei commi dal 12septies al 12undecies, prevede che per le domande presentate dopo il primo luglio 2010 il discorso cambi: il cumulo dei contributi diventa a carico del contribuente – secondo tabelle che sono via via state aggiornate – arrivando a cifre esorbitanti, che possono anche superare le centinaia di migliaia di euro.
Ricongiunzione contributi previdenziali a carico
Il problema si aggrava quando il dipendente è una donna, e la legge 122 è stata probabilmente pensata proprio perché, sempre nel 2010, è stata innalzata l‘età pensionabile delle donne del pubblico impiego a 65 anni, equiparandola a quella degli uomini (fra l’altro, il comma 12 sexies della legge 122 parla proprio di questo).
Dunque, una donna che è passata dal pubblico al privato e che aveva diritto ad andare in pensione a 60 anni (perché l’equiparazione anche per il settore privato è stata prevista dopo, nell’autunno del 2011, dall’ultima riforma delle pensioni, quella del Governo Monti) si è trovata in una situazione a dir poco surreale: o pagare centinaia di migliaia di euro per ricongiungere i contributi e mantenere così la possibilità di andare in pensione di vecchiaia a 60 anni (in realtà, 62 anni, aggiungendo i meccanismi delle finestre).
Ipotesi evidentemente inesistente, visto che stiamo parlando di impiegati, operai, o in genere lavoratori che difficilmente possono sopportare simili esborsi (pur a rate, come prevede la legge e come l’INPS ha provveduto a informare inviando apposite lettere alle persone interessate da questo provvedimento).
Oppure non ricongiungere i contributi, e a quel punto aspettare di aver “rimaturato” il diritto alla pensione, ad esempio aspettando i 65 anni (che in realtà saranno 66), ma trovandosi però con una pensione, oltre che ritardata, anche parecchio alleggerita perché si andrebbe in pensione con il contributivo pieno e rinunciando a decenni di contributi passati, non riscattati.
Insomma, tecnicamente il meccanismo è parecchio complicato (e anche assurdo), ma il succo è che ci sono lavoratori a cui l’istituto di previdenza sta chiedendo di ripagare una seconda volta, e con somme salate, contributi che erano stati già versati.
Con l’aggravante che in molti casi i lavoratori di passare dal pubblico al privato non l’hanno neppure scelto, perché lavoravano in enti che sono stati privatizzati (e quindi sono passati da un istituto all’altro automaticamente).
Alla Camera dei Deputati c’è una proposta di legge di iniziativa parlamentare, presentata nell’agosto del 2010, che è stata assegnata alla Commissione Lavoro, e che però, evidentemente, si è poi arenata. Forse, visto che di pensioni il Governo ultimamente si sta occupando parecchio, varrebbe la pena di riprenderla in mano.