Mobilità e successo imprenditoriale

di Roberto Lodola

7 Agosto 2008 09:00

logo PMI+ logo PMI+
La mobilità è un elemento essenziale che consente all'imprenditore di affermarsi e di ottenere successso

È oggi abbastanza comune mettere in rapporto il successo delle piccole e medie imprese con la qualità del prodotto o del servizio offerto piuttosto che con una decisa e continua tensione al raggiungimento degli obiettivi e all’affermazione personale propria all’imprenditore. È, invece, meno comune mettere in rapporto il successo delle piccole e medie imprese con una coraggiosa ed efficace applicazione di innovazioni di prodotto, di processo o di sistema. Ancora meno comune è mettere in rapporto il successo imprenditoriale con la mobilità.

Eppure l’imprenditorialità globale è nata e si sta sempre più sviluppando nel segno della mobilità. In un’economia in cui sono crollate molte delle vecchie frontiere e la concorrenza si è fatta martellante può sperare di sopravvivere o di prosperare solo chi è dinamico, chi sia in grado di muoversi nel mondo per coglierne le opportunità, in qualunque luogo ed in qualunque momento esse si presentino. In questa prospettiva l’imprenditorialità si connota a tutti gli effetti come una risorsa produttiva suscettibile di essere continuamente riallocata da un paese all’altro, da un’attività all’altra a seguito di un mutamento delle prospettive di guadagno garantite dai possibili utilizzi cui l’imprenditorialità può essere destinata.

Gli spazi dove l’imprenditorialità può oggi galoppare sono tanto quelli del mondo reale quanto quelli dei mondi virtuali, che si aprono a quanti siano in grado di dominare ed utilizzare in modo consapevole i moderni strumenti della conoscenza. In particolare, entrare nelle reti, navigarci rende sempre più possibile l’individuazione di nuove chance, anche impensabili, permettendo con ciò una piena affermazione dell’imprenditorialità, se è vero, come ha sostenuto Kirzner nel suo scritto “Competition and entrepreneurship”, che la caratteristica fondamentale di un vero imprenditore è l’intuito inteso come capacità di cogliere nuove possibilità di profitto anche in spazi in cui altri non riescano a notare assolutamente nulla.
Lungi dall’essere qualcosa di rivoluzionario, l’assunto di Kirzner è suffragato dallo stesso significato etimologico del termine impresa: tanto l’espressione spagnola impresa quanto le espressioni francese ed inglese entrepreneur derivano infatti dal verbo latino inprehendo che si potrebbe tradurre con “vedere”, “rendersi conto di”, “scoprire”.

Insieme all’intuito, tra le capacità proprie ad un vero imprenditore si potrebbe annoverare anche la creatività, alla stregua di quanto fece Schumpeter nella sua celebre opera “Teoria dello sviluppo economico”. Certo la creatività assume un significato particolare nel momento in cui la si contestualizza nella realtà aziendale. In tale contesto è infatti sinonimo di atto finalizzato al conseguimento di un risultato economico positivo: è creatività produttiva, strettamente associata al concetto di economicità.

Considerare la creatività una delle caratteristiche fondamentali di un vero imprenditore non fa che rafforzare il ruolo della mobilità come elemento funzionale ad una piena affermazione dell’imprenditorialità. Se, infatti, la ripetitiva dimensione della quotidianità ed un chiuso localismo appiattiscono in un’omologazione che mortifica ogni slancio creativo, la mobilità, col suo dischiudere nuovi scenari, col suo permettere una continua sperimentazione di nuove e magari anche contraddittorie esperienze favorisce la creatività: più estesa e varia è la cultura, più ricche e profonde sono le esperienze, più è concreta la possibilità di essere creativi.

Se, dunque, nella mobilità si possono esaltare pienamente l’intuito e la creatività imprenditoriali, e più in generale quella capacità di iniziativa e quello spazio di libertà di scelta e di decisione che pure costituiscono il sale della funzione imprenditoriale, con la diffusione della mobilità si potrebbe assistere ad una diffusione del gusto dell’intraprendere e parallelamente ad una definitiva affermazione del ruolo dell’uomo d’affari. Per secoli, infatti, si sono tenute in poco conto o addirittura disprezzate le attività affaristiche. Lo stesso appellativo di commerciante era declassante e attribuito a mestieri considerati inferiori.

Le società antiche davano valore ad altri ruoli, dando prova di scarsa memoria: dimenticavano infatti che la civiltà era nata e poi fiorita proprio grazie alle attività commerciali. Queste società dimenticavano anche che in principio gli stessi uomini di cultura non disdegnavano di dedicarsi agli affari: l’insospettabile Talete era un abile imprenditore, come tanti altri “illuminati”.

La funzione imprenditoriale iniziò ad essere rivalutata solo con la Rivoluzione Industriale. Ancora durante il Rinascimento, nella solco della tradizione classica, ci si compiaceva di tener rigidamente separate le attività affaristiche da quelle intellettuali. L’agire ed il contemplare continuavano ad essere considerati come due modi di essere radicalmente distinti: il secondo, quello più nobile, era dei poeti e dei filosofi. L’agire era invece cosa gretta, da uomini gretti.

Dalla condanna dell’usura all’etica protestante, dall’etica protestante al mondo globalizzato è iniziato però un lungo cammino che pare poter portare al riscatto della funzione imprenditoriale e ad una decisa affermazione del ruolo dell’uomo d’affari, a condizione comunque di riuscire ad affrontare in maniera efficace le problematicità che quella mobilità che pare poter esaltare l’imprenditorialità non manca comunque di sollevare. Il nuovo nomadismo imprenditoriale per esempio sta facendo emergere problemi sul già scivoloso terreno dei rapporti interaziendali. È, infatti, difficile per gli imprenditori globali riuscire a pianificare oggi il know how che sarà necessario domani, quando si lanceranno in una nuova avventura imprenditoriale.

La consapevolezza che quanto è utile oggi potrebbe rivelarsi inutile o addirittura un peso per le iniziative di domani rende problematico investire in rapporti a lungo termine con i lavoratori, subordinandolo alla capacità degli imprenditori di saper gestire strategicamente la pianificazione organizzativa e la formazione del personale. La mobilità è poi problematica anche perché se da un lato non manca di garantire sempre nuove opportunità, dall’altro espone però con forza al rischio.

Saper gestire il rischio in maniera efficace è allora decisivo, soprattutto per le piccole e medie imprese, che non possono seppellire errori monumentali come è invece possibile per le grandi imprese: perdite nell’ordine di milioni di euro possono infatti essere assorbite (specialmente se compensate da esenzioni fiscali) all’interno di imperi le cui attività ammontano a milioni e milioni di euro. È l’azionista a pagarne il prezzo.

Perché si possa gestire il rischio in maniera efficace è necessario superare gli atteggiamenti fatalistici e magari un po’ scaramantici tipici anche a molti tra i più coraggiosi imprenditori, sostituendoli con una solida cultura di risk management che inserisca il risk management in una prospettiva gestionale, reddituale, strategica, senza comunque cadere nella trappola di quei congegni della direzione pseudoscientifica fatti di artificiosi organigrammi integrati dalla teoria delle probabilità nell’alchemico proposito di misurare il tasso di rischio per ogni possibile linea di condotta scelta: sono tecnicismi ingessanti, deleteri tanto quanto il fatalismo.

Al di là di queste e delle altre problematicità che solleva, la mobilità resta comunque per le imprese una scelta obbligata: tra chi mette le vele al vento cercando di governare col timone una rotta che può presentare un certo numero di alternative e chi resta immobile girando in tondo nel tentativo di difendere ciò che c’è, sono i primi ad avere le maggiori possibilità di successo nonostante i problemi anche delicati con cui la mobilità stessa li chiama a confrontarsi. Gli altri si costringono ad una marginalità destinata a farsi sempre più angusta e soffocante.