Gli obblighi di fedeltà, correttezza e non concorrenza dei lavoratori nei confronti del datore di lavoro sono più ampi rispetto a quelli letteralmente previsti dall‘articolo 2105 del codice civile e comprendono più ampi doveri di correttezza e buona fede anche nei comportamenti extra-lavorativi. Con questa motivazione la Corte di Cassazione, con sentenza 2550 del 10 febbraio 2015, ha dato torto a un ex dipendente che contestava il licenziamento per giusta causa da parte dell’azienda per cui lavorava e di cui era socio, provocato dal fatto che aveva messo in pratica, in ufficio, atti di violenza fisica nei confronti della moglie, a sua volta socia della società.
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Il caso
Evidentemente un caso limite che riguarda, come si legge dagli atti, reiterati atti di violenza da parte del lavoratore. Quest’ultimo, tuttavia, si era opposto al licenziamento spiegando che comunque si trattava di fatti non strettamente collegati all’attività lavorativa e, di conseguenza, non sanzionabili non un licenziamento per giusta causa. Ancor più nello specifico, il socio-dipendente si è difeso definendo di scarsa importanza gli episodi di violenza nei confronti della moglie e, comunque, estranei al rapporto di lavoro. Su questo, la Cassazione ha opposto rifiuto, confermando quindi il licenziamento e argomentando una posizione già consolidata della giurisprudenza.
Sentenza
Nel caso specifico, la Corte nega che gli episodi potessero definirsi extra-lavorativi, anche perché la moglie era socia della società e i fatti sono avvenuti all’interno del luogo di lavoro. In ogni caso, e qui sta il punto interessante della sentenza sul fronte giurisprudenziale:
«L’incidenza sul rapporto di lavoro delle condotte extra-lavorative» non può «essere esclusa», ed anzi l’obbligo di fedeltà «a carico del lavoratore subordinato ha un contenuto più ampio di quello risultante dall’articolo 2105 del codice civile, dovendo integrarsi con gli articoli 1175 e 1375» dello stesso codice civile, «che impongono correttezza e buona fede anche nei comportamenti extra-lavorativi, necessariamente tali da non danneggiare il datore di lavoro».
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Obblighi di non concorrenza
Spieghiamo bene: gli obblighi di non concorrenza dei lavoratori regolamentati dal citato articolo 2105 del codice civile sono i seguenti:
Il dipendente «non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore, né divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio».
Ebbene, la Cassazione ha ribadito che questo non esaurisce gli obblighi di correttezza del prestatore di lavoro, il quale deve anche
«Astenersi da qualsiasi altra condotta che, per la natura e per le possibili conseguenze, risulti in contrasto con i doveri connessi al suo inserimento nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa» compresa ogni «attività contraria agli interessi del datore di lavoro potenzialmente produttiva di danno».
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Qui intervengono sia i già citati articoli 1175 e 1375 su correttezza e buona fede, che un’interpretazione non restrittiva dell’articolo 2105 e del 2104 (diligenza del prestatore di lavoro). Tali articoli:
«Non escludono che il dovere di diligenza del lavoratore subordinato si riferisca anche ai vari doveri strumentali e complementari che concorrono a qualificare il rapporto obbligatorio di durata e si estenda a comportamenti che per loro natura e per le loro conseguenze appaiano in contrasto con i doveri connessi all’inserimento del lavoratore nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa, o creino situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi dell’impresa».
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Nel caso specifico, la condotta violenta, la reiterazione, la qualità della vittima e i suoi rapporti con la compagine societaria, il luogo nel quale è stata realizzata, la presenza di clienti, ripercuote «irrimediabilmente i suoi effetti sul vincolo fiduciario che deve presiedere al rapporti di lavoro subordinato».
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(Fonte: la sentenza 2550 del 10 febbraio 2015 della Corte di Cassazione)