Per le imprese familiari (art. 230-bis del c.c.), ai fini fiscali, l’Agenzia delle Entrate ha equiparato la situazione dei coniugi e degli uniti civilmente, anche ai conviventi di fatto, chiarendo – con la risoluzione n. 134/E/2017 – che anche in caso di convivenza il reddito d’impresa può essere ripartito. In particolare, in caso di impresa familiare, è possibile imputare gli utili a convivente di fatto che presta stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa di cui risulta titolare l’altro convivente, con un limite del 49%.
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Le Entrate hanno fornito questo chiarimento in risposta ad un interpello che sollevava la questione a fronte delle novità introdotte dalla legge sulla “Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze” (legge Cirinnà) sono state introdotte nell’ordinamento italiano delle modifiche importanti che riguardano sia l’introduzione nel nostro ordinamento l’istituto dell’unione civile tra persone dello stesso sesso (art. 1) che la disciplina del regime delle convivenze di fatto.
Questa ripartizione del reddito d’impresa individuale del titolare consente ai due conviventi di poter beneficiare di aliquote IRPEF più basse.
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Diversa la situazione per l’aspetto contributivo, poiché l’INPS (circolare n. 66/2017) non riconosce tale equiparazione tra coppie di fatto, matrimonio e unioni civili, dunque in caso di convivenza prevede che a versare interamente i contributi alla Gestione Artigiani e commercianti sia solo il titolare dell’impresa.
Trattamento previdenziale
C’è quindi una in base alle due pronunce, dell’Agenzia delle Entrate e dell’INPS, una disparità di trattamento fiscale e previdenziale in caso di impresa familiare gestita da conviventi di fatto motivata dal fatto che la legge Cirinnà tutela in maniera differente le unioni civili rispetto alle convivenze di fatto, estendendo alle unioni civilmente riconosciute tra persone dello stesso sesso “le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole ‘coniuge’, ‘coniugi’ o termini equivalenti contenute nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi nonché nei contratti collettivi”.
Diversamente alle convivenza di fatto, definite all’art. 1 comma 36 della legge 76 del 2016 come “due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile”, come spiega la circolare INPS n. 66/2017:
“La nuova normativa estende al convivente alcune tutele, espressamente indicate, riservate al coniuge o ai familiari, ad esempio in materia penitenziaria, sanitaria, abitativa, ma non introduce alcuna equiparazione di status, né estende al convivente, per quanto di interesse, gli stessi diritti/obblighi di copertura previdenziale previsti per il familiare coadiutore”.“Pertanto, il convivente di fatto, non avendo lo status di parente o affine entro il terzo grado rispetto al titolare d’impresa, non è contemplato dalle leggi istitutive delle gestioni autonome quale prestatore di lavoro soggetto ad obbligo assicurativo in qualità di collaboratore familiare”.
“Le sue prestazioni saranno quindi valutabili, in base alle disposizioni vigenti ed alle elaborazioni giurisprudenziali, al fine di individuare la tipologia di attività lavorativa che si adatti al caso concreto”.
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Trattamento fiscale
In tema di trattamento fiscale, l’Agenzia delle Entrate spiega invece che:
La Legge Cirinnà è intervenuta altresì sulla disciplina dell’impresa familiare, in una duplice direzione:
- da un lato, estendendo alle unioni civili la disciplina civilistica dell’impresa familiare di cui all’articolo 230-bis del c.c. (mediante il rinvio contenuto nell’art. 1 comma 13 all’intero capo VI del titolo VI del libro primo del c.c.);
- dall’altro introducendo nel codice civile l’articolo 230-ter, rubricato “Diritti del convivente”, recante la regolamentazione delle prestazioni di lavoro rese in favore del convivente more uxorio.
Tale ultima norma riconosce “Al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente…il diritto di partecipazione agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, commisurata al lavoro prestato”.
Si prevede inoltre che il diritto di partecipazione non spetti “qualora tra i conviventi esista un rapporto di società o di lavoro subordinato”.
Fonti: Agenzia delle Entrate, INPS.