Velo sul lavoro, quando è lecito il divieto

di Barbara Weisz

15 Marzo 2017 15:05

Simboli politici o religiosi come il velo islamico sul lavoro: quadro normativo e sentenze UE per fare chiarezza su legittimità del divieto e conseguente licenziamento.

Il divieto dell’azienda di indossare il velo islamico durante le ore di lavoro è legittimo se il regolamento interno proibisce ai dipendenti di identificarsi attraverso simboli religiosi, politici, filosofici o di altro genere. Invece, è inammissibile in altri casi, ad esempio su richiesta di un cliente. Lo stabiliscono due diverse sentenze della Corte di Giustizia Europea, che si riferiscono entrambe a casi di licenziamento per aver indossato il velo al lavoro.

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Normativa

Ricordiamo che la discriminazione religiosa diretta (articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78/CE):

«sussiste quando, sulla base della religione, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga».

Quella indiretta (articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della stessa direttiva) riguarda invece una disposizione, un criterio o una procedura apparentemente neutri che però:

«possono mettere in una posizione di particolare svantaggio persone di una determinata religione rispetto ad altre persone».

Divieto legittimo

Con la sentenza 157/2015 si affronta il caso di una lavoratrice che, in costanza di rapporto di lavoro, richiede all’azienda di indossare il velo, ricevendo un diniego sulla base di un preesistente regolamento aziendale che vieta ai dipendenti «di indossare sul luogo di lavoro segni visibili delle loro convinzioni politiche, filosofiche o religiose e/o manifestare qualsiasi rituale che ne derivi».

La mancata osservanza del regolamento, con conseguente licenziamento, non può dunque essere contestato per abuso di diritto e violazione della legge anti-discriminazione ai sensi degli articoli 1 e 2 della direttiva 2000/78 («discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali») se l’impresa vieta in egual misura tutti i segni religiosi visibili, perché di fatto non promuove discriminazione fra religioni, né di genere o altro.

Non si configura nemmeno una discriminazione fondata in generale sulla religione se il regolamento aziendale vieta contestualmente anche segni di una convinzione politica o filosofica. Quindi c’è un principio di neutralità, con effetti identici nei confronti di un dipendente religioso, manifestamente antireligioso o esplicitamente portatore di una preferenza filosofica o politica. Semmai, l’unica disparità di trattamento esistente, è fra:

«i lavoratori che intendono esprimere in maniera attiva una determinata convinzione – sia essa di natura religiosa, politica o filosofica – e i loro colleghi, che non sentono tale esigenza».

Qui, interviene l’articolo 4 della stessa direttiva 2000/78, in base al quale una differenza di trattamento basata su una caratteristica (che può anche derivare da un convinzione religiosa, come in questo caso) non costituisce discriminazione laddove, per la natura di un’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata,

«costituisca un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa, purché la finalità sia legittima e il requisito proporzionato».

Il codice di abbigliamento fissato da un’impresa, incluso un eventuale divieto di indossare il velo, secondo la Corte può giustificare una disparità di trattamento fondata sulla religione solo se tale codice di abbigliamento e l’immagine dell’impresa che esso esprime («corporate image» o «corporate identity») risultano, da parte loro, legittimi e conformi al diritto dell’Unione. Nel caso in esame, l’unica finalità dell’impresa è una «politica di neutralità religiosa e ideologica», che non eccede i limiti del potere discrezionale imprenditoriale. A tale riguardo, vanno esaminati una serie di fattori: dimensioni e vistosità del segno religioso, tipo di attività lavorativa, contesto in cui si svolge l’attività, l’identità nazionale dello Stato membro interessato.

Divieto inammissibile

La seconda sentenza (188/15), riguarda invece un caso diverso, ovvero quello di una dipendente con velo licenziata dopo le proteste di un cliente. Se l’impresa impone il divieto e, dinanzi ad un rifiuto procede con il licenziamento, per la Corte Europea non c’è giustificazione. Una regola interna che vieti ai dipendenti di indossare simboli religiosi in occasione dei contatti con i clienti costituisce una discriminazione diretta basata sulla religione o sulle convinzioni personali. Quindi, il licenziamento in questo caso è illegittimo.