La sentenza della Corte Costituzionale che ha approvato due dei quesiti proposti per il referendum sul Jobs Act (su voucher lavoro e responsabilità solidale appalti) e respinto il terzo (sull’articolo 18) ha di fatto segnato l’apertura della campagna elettorale, pur fra una serie di incognite, a partire dalla data del voto. In base alla legge si va alle urne in primavera, fra il 15 aprile e il 15 giugno, a meno che non intervenga una crisi di governo: in caso di elezioni anticipate, la consultazione referendaria viene congelata fino al 2018.
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«Parte ora la campagna referendaria e da oggi chiederemo tutti i giorni al Governo di fissare la data in cui si voterà per referendum su voucher e appalti».
Così ha commentato Susanna Camusso, segretaria generale CGIL, promotrice dei quesiti. La sigla confederale sta anche valutando l’ipotesi di presentare ricorso alla Corte di Giustizia Europea contro il no al referendum sull’articolo 18.
Il ministro del Lavoro Giuliano Poletti si limita a sottolineare che la sentenza «va apprezzata come tale e applicata» senza parlare di vincitori e vinti e che:
«il Jobs Act è una buona legge, apprezzata a livello internazionale, che ha favorito gli investimenti e ha ridotto il contenzioso».
Si parla anche di una possibile nuova legge sui voucher che eviti la consultazione, magari abbassando il tetto annuo dei 7mila euro, riportandolo alla precedente soglia di 5mila euro, e valutando altri correttivi che evitino abusi nell’utilizzo dei buoni lavoro, come l’esclusione di alcuni settori o il divieto di utilizzarli per retribuire ore aggiuntive a lavoratori già contrattualizzati. Non è un «maquillage per evitare il voto», assicura Poletti:
«le modifiche non c’entrano con il voto, ma vanno fatte per avere una buona legge».
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Il quesito bocciato proponeva l’eliminazione delle nuove norme sul licenziamento illegittimo previste dal Jobs Act, che sostituiscono il reintegro previsto dall’articolo 18 con un risarcimento economico, tranne che in alcuni specifici casi (licenziamento discriminatorio). La formulazione introduceva però l’articolo 18 nelle imprese sopra i 5 dipendenti (mentre prima del Jobs Act il reintegro era limitato alle aziende sopra i 15 dipendenti. Nel giro di un mese si conosceranno le motivazioni della sentenza ma per il momento, secondo le indiscrezioni di stampa, il no è stato votato da otto esponenti della Corte Costituzionale contro cinque a favore.
Il dibattito politico si concentra proprio sulla decisione di non ammettere il quesito: critiche arrivano da Lega Nord («sentenza politica, gradita ai poteri forti e al governo come quando bocciò il referendum sulla legge Fornero», dichiara il leader Matteo Salvini), e Sinistra Italiana (Loredana De Petris, capogruppo al Senato: «non condividiamo la decisione di dichiarare inammissibile il più importante e significativo tra i referendum sul lavoro, quello sull’articolo 18»).
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Positivi invece i commenti di Forza Italia («era un quesito pastrocchio, in parte abrogativo ma in parte innovativo», spiega Francesco Giro, senatore, riferendosi al fatto che il referendum avrebbe introdotto l’articolo 18 nelle aziende sopra i cinque dipendenti), e Area Popolare (Maurizio Lupi: «Così come formulato il quesito avrebbe riportato indietro la legislazione sul lavoro a un sistema rigido e senza flessibilità»).
Soddisfazione da parte del PD, secondo il vicesegretario Lorenzo Guerini la decisione della Corte «consente di proseguire, senza cesure, il percorso di riforma del mercato del lavoro, per migliorarne le condizioni nei confronti dei lavoratori rendendolo, nel contempo, più efficiente».
Diversa la posizione della minoranza Dem, Pierluigi Bersani insiste sulla posizione di votare sì al referendum sui voucher se non interverranno prima modifiche. Il presidente della Commissione Lavoro della Camera, Cesare Damiano, ricorda che ci sono sei proposte di legge in commissione sui voucher lavoro, «gran parte delle quali convergenti con la proposta del Pd che prevede il ritorno alla legge Biagi del 2003», che ha istituito i buoni lavoro.
Anche il Movimento 5 Stelle si concentra sui voucher, Luigi di Maio sottolinea ricorda i dati 2016, con 146 milioni di voucher venduti, e parla di «nuova frontiera di sfruttamento».
Al di là delle diverse posizioni, i due quesiti non ammessi di fatto propongono l’abolizione dei buoni lavoro e il ritorno alla più ampia responsabilità solidale negli appalti come avveniva precedentemente al Jobs Act.
- I voucher, introdotti dalla legge del 2003, inizialmente erano previsti solo per retribuire prestazioni occasionali; il Jobs Act ha alzato il tetto di reddito annuo possibile a 7mila euro e ne ha esteso l’applicazione a tutti i settori. Parziale marcia indietro è stata fatta con il decreto correttivo del Jobs Act dell’autunno scorso, che ha potenziato la tracciabilità per evitare abusi.
- Per quanto riguarda gli appalti, si propone l’abrogazione della norma che attenua la responsabilità solidale in materia di obblighi retributivi e diritti del subappaltatore.