Con la sentenza n. 23286/2016 la Corte di Cassazione ha sancito nuove regole per dimostrare eventuali molestie sessuali sul luogo di lavoro, stabilendo l’illegittimità, perché discriminatorio, del licenziamento della lavoratrice o del lavoratore che, così come confermato da altre testimonianze, lamenta di perso il posto per non aver “acconsentito” agli approcci del superiore / datore di lavoro.
In presenza di deposizioni plurime, infatti, scatta l’inversione probatoria a carico del datore ex art. dlgs 198/2006. In parole povere se la denuncia arriva da più di un dipendente, sarà il molestatore seriale a dover dimostrare che il licenziamento della persona molestata non è stato un atto di ritorsione, dunque illegittimo.
Tuttavia, la stessa Cassazione sottolinea che:
“L’equiparazione tra molestie sessuali e discriminazioni, espressamente prevista in via generale dall’art. 26 stesso dlgs, poco si presta, per mancanza del trattamento differenziale, a riflettersi anche sul piano della ripartizione dell’onere della prova. Le discriminazioni (di varia natura) possono emergere dal tertium comparationis costituito dal trattamento positivamente praticato rispetto ad altre categorie di lavoratori”.
Nelle molestie sessuali, il tertium comparationis è invece il trattamento differenziale negativo rispetto agli altri colleghi. Non solo: l’equiparazione tra discriminazioni di genere e molestie sessuali si rinviene anche nel’art. 2, co. 1°, lett. d) dello stesso decreto che, a sua volta, riprende l’art. 2, comma 3° della direttiva 2000/78/CE.
La Corte, in presenza di una prova presuntiva di molestia, è dunque legittimata a respingere l’eventuale ricorso dell’accusato, confermando la condanna al risarcimento e alla reintegrazione nel posto di lavoro.
Fonte: Sentenza della Cassazione.