L’impresa familiare non esenta dall’obbligo di retribuire il lavoro dei parenti: la prestazione di un parente a titolo gratuito esiste ma con vincoli precisi, in assenza dei quali è necessario riconoscere un compenso in base alle normative vigenti. C’è anche la possibilità di presumere l’esistenza di una società di fatto tra coniugi, che però deve essere circostanziata: il Fisco deve provare che ci siano gli elementi della costituzione societaria previsti dalla legge. Su questi due aspetti legati alle collaborazioni fra parenti nell’ambito di attività economiche, sono recentemente intervenute due diverse sentenze, utili a fare chiarezza su alcuni punti. Vediamole.
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Per quanto riguarda il lavoro di parenti nell’impresa familiare, la Cassazione (sentenza 9195/2016) ha escluso la possibilità di prestazione gratuita:
«qualsiasi attività oggettivamente configurabile come prestazione di lavoro subordinato si presume effettuata a titolo oneroso». La possibilità di ricondurla «ad un rapporto diverso istituito affectionis vel benevolentiae causa, caratterizzato dalla gratuità della prestazione» presuppone «la sussistenza o meno di una finalità ideale alternativa rispetto a quella lucrativa, che deve essere rigorosamente provata».
L’ipotesi del lavoro gratuito è inoltre esclusa nel caso in cui la prestazione lavorativa sia svolta fuori dalla comunità familiare, oppure quando i soggetti non sono conviventi sotto lo stesso tetto.
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Il riferimento normativo è l’articolo 230 bis del Codice Civile, che contempla sia il vincolo di lavoro subordinato sia la compartecipazione all’impresa familiare (ad esempio, in termini di partecipazione agli utili), mentre è esclusa la gratuità della collaborazione per solidarietà familiare. Se poi l’impresa non si configura come familiare, l’unica normativa applicabile è quella sul lavoro, indipendentemente dal vincolo di parentela.
La seconda sentenza (CTR Liguria del 4 febbraio 2016) riguarda invece una pretesa fiscale dell’Agenzia delle Entrate legata all’esistenza o meno di una società di fatto tra coniugi. In questo caso, però, i giudici hanno dato ragione a contribuenti. L’esistenza di un vincolo societario necessita di elementi precisi, previsti dall’articolo 2247 del codice civile (es.: conferimento di beni o servizi, conto corrente intestato ai soci):
un «contratto fra due o più persone che conferiscono beni o servizi per l’esercizio in comune di un’attività economica allo scopo di dividerne gli utili».
Se il Fisco vuole presumere l’esistenza di una società di fatto deve dunque comprovarlo.Soprattutto se si tratta di coniugi:
«vista la sostanziale coincidenza degli elementi tipici della solidarietà familiare con alcuni caratteri del rapporto sociale, occorre che la prova del vincolo societario sia ancora più precisa e circostanziata».
Tanto più se il ruolo del coniuge risulti occasionale e limitato a poche operazioni. Conclusione: anche se «è stata posta in essere una attività di vari soggetti che ne hanno ritratto un utile, […] nessun elemento grave, preciso e concordante dimostra che fra questi soggetti esistesse un vincolo societario, sia pure di fatto».