Il sistema previdenziale italiano è troppo oneroso per le imprese e a rischio povertà in termini di pensioni future per giovani e donne: è l’allarme lanciato dall’OCSE nel rapporto “Pensions at a glance 2015“, che analizza i sistemi pensionistici delle economie del G20. L‘Italia risulta il paese con il più alto livello contributivo con un’aliquota al 33%, per due terzi a carico dell’impresa e per un terzo a carico del dipendente. Le riforme degli ultimi anni, infatti, fra innalzamento età pensionabile e calcolo contributivo, hanno sì migliorato la sostenibilità di lungo periodo ma non risolto delle pensioni future.
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Il livello delle prestazioni per gli attuali pensionati assicura un reddito superiore del 95% rispetto a quello della media nazionale, un livello fra i più alti della classifica internazionale, guidata da Lussemburgo, Francia e Grecia.
Redditi da pensione più alti che in Italia (sempre in termini di percentuale rispetto alla media), anche in Israele, mentre Spagna, Portogallo e Messico sono allo stesso livello. Il problema è che il rischio povertà si è trasferito nel tempo dagli anziani ai giovani: circa il 15% delle persone fra i 18 e i 25 anni sono povere, contro il 9% degli ultra65eeni.
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Circa un quarto dei giovani fra i 16 e i 29 anni non studiano e non lavorano (i cosiddetti Neet). Complice la crisi degli ultimi anni, c’è anche un problema legato al crescente numero di lavoratori che si sono confrontati con periodi di disoccupazione, lavoro part-time o precario, con una conseguente interruzione del pagamento dei contributi, e questo avrà un effetto negativo sulle prestazioni future.
«L’effetto di interruzioni di carriera o di ritardi nell’entrata del mercato del lavoro potrebbe essere più elevato in Italia che nei paesi OCSE» si legge nel report, anche perché «nonostante la presenza di alcuni meccanismi che permettono di ridurre in parte l’effetto di carriere interrotte (come l’aumento dei coefficienti di trasformazione per le donne con figli e i contributi versati durante i periodi di disoccupazione), in Italia mancano degli ammortizzatori efficaci che proteggano la pensione dall’effetto di interruzione di carriera».
Le interruzioni di carriera riguardano in particolare le donne: il 12% delle donne fra i 25 e i 49 anni, contro una percentuale pari all’1% fra gli uomini della stessa età. Altri dari relativi alla questione femminile: le donne cominciano il lavoro retribuito più di due anni più tardi rispetto agli uomini, i tassi di occupazione delle madri sono bassi, molte donne lavorano part-time. Sono tutti elementi che rischiano di «danneggiare l’adeguatezza dei redditi pensionistici del futuro».
Il report presenta una serie di dati emblematici relativi all’impatto delle interruzioni di carriera sulla pensione futura: dopo cinque anni senza lavoro, l’Italia registra una delle maggiori riduzioni della pensione futura (insieme a Germania, Israele, Islanda, Messico e Portogallo), mentre in un terzo dei paesi OCSE le pensioni non subiscono alcuna riduzione in queste circostanze. Per un lavoratore italiano a basso reddito, l’interruzione di cinque anni dal lavoro sarà del 10%, contro il 3% di media OCSE.
Fra i consigli all’Italia, quello di promuovere carriere complete e di maggior durata, concedendo la necessaria flessibilità in termini di conciliazione famiglia-lavoro, oltre a una maggior informazione su contributi versati e pensione futura (la famosa busta arancione), e sulle possibilità di previdenza complementare.