Nella stipula del contratto di lavoro, azienda e neo-assunto possono prevedere un periodo di prova (patto di prova) per verificare la convenienza reciproca alla prosecuzione del rapporto: il datore di lavoro valuta l’idoneità professionale del lavoratore a svolgere le mansioni specificate nel contratto, mentre il lavoratore accerta in concreto la propria attitudine allo specifico impiego.
Restano ferme le disposizioni generali prevista dalla legge e dai CCNL per quanto riguarda durata minima e massima del periodo di prova nei contratti a termine: 1 giorno di effettiva prestazione per ogni 15 giorni di calendario, con un minimo di 2 giorni per i contratti fino a 6 mesi e 30 giorni per quelli fino a dodici mesi.
Il periodo di prova: cosa è e per quali contratti si applica
Il periodo di prova può essere previsto nell’ambito di qualsiasi rapporto di lavoro subordinato: non solo in quello a tempo indeterminato ma anche determinato, di inserimento e di apprendistato. Inoltre, può essere apposto ai contratti stipulati con domestici, dirigenti, giornalisti e lavoratori invalidi assunti con il sistema del collocamento obbligatorio (quote di riserva per categorie protette).
La direttiva UE 2019/1152 ha però introdotto nuove regole e diritti per quanto riguarda i contratti di lavoro, introducendo in alcuni casi misure più restrittive e nuovi vincoli nell’ambito dei contratti di lavoro a tempo determinato, prevedendo che il periodo di prova diventi proporzionale alla durata del contratto, alla natura dell’impiego e alle mansioni da svolgere.
Il dlgs 104/2022 costituisce la norma italiana di recepimento nel nostro ordinamento. Ulteriori novità sono state introdotte dal più recente Ddl Lavoro, che ha regolamento la quantificazione del periodo di prova e la durata minima nei contratti a termine fino a 6 e 12 mesi.
In generale, si prevede una durata massima della prova di sei mesi per tutti i lavoratori (art. 10 legge n. 604/1966) e tre mesi per gli impiegati non aventi funzioni direttive (art. R.D.L n. 1825/1924). I contratti collettivi, poi, determinano la durata del periodo di prova entro i limiti di legge distinguendo in alcuni casi tra operai ed impiegati, prevedendo in genere periodi inferiori rispetto ai limiti legali e stabilendo il criterio di calcolo dei giorni.
Come si stabilisce la durata della prova
Fermo restando il limite legale, nel contratto individuale i termini previsti dalla contrattazione collettiva possono essere ridotti (ma non aumentati).
In alcuni casi la contrattazione collettiva esclude espressamente la possibilità di prorogare la durata inizialmente fissata del periodo di prova. In altri casi tale possibilità è prevista, ma sempre nei limiti di durata massima stabiliti dalla legge. In mancanza di tale previsione non è possibile pattuire la proroga del contratto individuale, perché ciò costituirebbe clausola svantaggiosa per il lavoratore.
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Alcuni dei CCNL prevedono ipotesi di sospensione del periodo di prova al sopraggiungere di determinati eventi: gravidanza, malattia e infortunio. La Giurisprudenza maggioritaria afferma che devono escludersi dal totale dei giorni di prova le assenze per malattia o infortuni, mentre devono essere ricomprese le assenze che rientrano nello svolgimento fisiologico del rapporto, come ad esempio ferie, festività e riposi settimanali, nonché i periodi di chiusura dell’azienda per sospensione dell’attività.
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Quando e come si stipula il patto di prova
In mancanza di una precisa disposizione legale, la Giurisprudenza ritiene che il patto di prova debba essere siglato contestualmente alla stipula del contratto di lavoro e, comunque, prima dell’esecuzione dello stesso. Se il patto è stipulato successivamente si considera nullo ed il rapporto assume immediatamente carattere definitivo.
Il patto di prova deve essere scritto e sottoscritto da entrambe le parti. In caso contrario è nullo, viene cioè considerato come non apposto e determina automatica conversione del rapporto in rapporto definitivo. La clausola che prevede il periodo di prova deve contenere l’indicazione delle precise mansioni affidate al lavoratore.
Ciò dal momento che, da un parte la possibilità per il lavoratore di impegnarsi secondo un programma ben definito in ordine al quale poter dimostrare le proprie attitudini, e dall’altra, la facoltà del datore di lavoro di esprimere la propria valutazione sull’esito della prova, presuppongono che questa debba effettuarsi in ordine a compiti esattamente identificati sin dall’inizio.
La mancanza della specifica indicazione delle mansioni costituisce motivo di nullità del patto (con automatica conversione dell’assunzione in definitiva sin dall’inizio), a prescindere dal livello contrattuale e dalla natura della mansione assegnata. L’indicazione delle mansioni, e perciò dell’oggetto della prova, può essere fatta con riferimento al sistema classificatorio della contrattazione collettiva, purché nella scala definitoria di categorie, qualifiche e livelli professionali venga richiamata la nozione più dettagliata.
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Cosa succede quando termina la fase di prova
Al termine del periodo di prova entrambe le parti sono libere, alternativamente, di recedere dal contratto o di continuare l’esecuzione. In questo caso, è sufficiente che l’attività lavorativa prosegua – anche per breve tempo – dopo la scadenza della prova. Essendosi ormai perfezionata l’assunzione definitiva, è illegittimo stabilire nuovi periodi di prova o apporre un termine al contratto. Durante il periodo di prova le parti sono libere di recedere dal contratto di lavoro, a meno che non ne abbiano stabilito una durata minima garantita. In tal caso, il recesso può avvenire solo alla scadenza del termine oppure per giusta causa.
Le parti non sono obbligate a utilizzare la forma scritta per comunicare il recesso né a rispettare un periodo di preavviso. Peraltro, anche durante il periodo di prova le parti devono dare esecuzione al contratto secondo correttezza e buona fede, ed è quindi possibile che il lavoratore dimissionario sia tenuto al risarcimento dei danni nei confronti del datore di lavoro. La discrezionalità del datore di lavoro di licenziare il lavoratore in prova incontra dei limiti in quanto deve necessariamente essere collegato all’esito dell’esperimento. Il recesso, infatti, deve essere coerente con la causa del contratto e il lavoratore può contestare che non sia stato determinato da motivo lecito o con modalità adeguate, oppure che la prova è stata positivamente superata.
Mancato superamento del periodo di prova
L’impugnazione del licenziamento intimato per mancato superamento della prova non soggiace al termine di decadenza di 60 giorni previsto dalla legge. Infatti, ai fini dell’applicabilità o meno di tale termine, si deve avere riguardo alla qualificazione data al recesso dal datore di lavoro, nel cui interesse il termine è stabilito, anziché all’effettiva natura del licenziamento stesso quale accertata, a seguito dell’impugnativa del lavoratore. Con riguardo alla tutela invocabile in caso di recesso illegittimo bisogna valutare se l’illegittimità deriva dalla nullità del patto di prova.
Quando il patto è nullo, il licenziamento è intimato sull’erroneo presupposto della validità del patto e si configura come licenziamento individuale disciplinato dalle regole comuni per quel che attiene ai requisiti di efficacia e di legittimità. Da ciò ne consegue che il licenziamento intimato può essere conferito dal datore di lavoro in licenziamento ordinario, enunciando successivamente le specifiche ragioni giustificatrici dello stesso.
Quando il patto di prova è valido, ma il recesso è illegittimo, le posizioni espresse dalla Giurisprudenza sono diverse, anche se può individuarsi un orientamento prevalente, secondo il quale dall’eventuale declaratoria di illegittimità del recesso intimato nel corso del periodo di prova deriva la prosecuzione – ove possibile – della prova per il periodo di tempo mancante al termine prefissato, oppure il risarcimento del danno.
a cura di Roberto Grementieri