Il sistema previdenziale italiano è sostenibile nel breve-medio periodo (dieci anni) ma le prestazioni sociali restano il tallone d’Achille del welfare pubblico, con oltre la metà della spesa (51,65%): il suo costo annuo ha raggiunto i 157 miliardi nel 2022 (+12 miliardi rispetto ai 144,2 del 2021), con un tasso di crescita annua dal 2008 del 7,67% (tre volte superiore a quello della spesa per le pensioni).
Sono evidenze che emergono dal consueto rapporto di Itinerari Previdenziali dedicato al bilancio del sistema previdenziale italiano, in base al quale nel 2022 l’Italia ha complessivamente destinato a pensioni, sanità e assistenza 559,513 miliardi di euro, con un incremento del 6,2% rispetto all’anno precedente.
Pensioni: un bilancio italiano
Il numero di pensionati sale da 16,099 del 2021 a 16,131 milioni del 2022 (+32.666 unità). Migliora anche il rapporto pensionati-occupati, che aumenta a 1,4443, senza tuttavia aver ancora recuperato i valori pre-pandemici (1,4578).
Fra i dati rilevanti c’è un incremento più sostenuto del numero degli uomini (+ 27.136 unità) rispetto a quello delle donne (+ 5.530). Secondo l’analisi di Itinerari Previdenziali, questo potrebbe dipendere dall’onda lunga determinata dall’inasprimento dei requisiti avvenuto con la riforma del 2012 e, in particolare, dell’equiparazione tra i generi dell’età pensionabile a partire dal 2018.
Si può invece escludere che sia un risultato dei nuovi paletti introdotti per ritirarsi con l’Opzione Donna, che sono entrati in vigore nel 2023.
Effetto Fornero in calo
I numeri sopra esposti mostrano come si sia invertito il trend virtuoso alimentato dalla Riforma Fornero del 2012, che inasprendo i requisiti aveva prodotto il risultato sperato di abbassare il numero dei pensionati.
La curva negli ultimi anni è tornata a salire (il valore più basso è stato toccato nel 2018). Per lo più, a causa delle forme di flessibilità in uscita, in particolare la Quota 100 che ha debuttato nel 2019 (e via via si è poi trasformata in Quota 102 e Quota 103).
Prestazioni sociali troppo costose
I trattamenti di natura assistenziale sono stati 4 milioni 146mila 120, (invalidità civile, accompagnamento, assegni sociali, pensioni di guerra) per un costo totale annuo di 21,486 miliardi, malgrado il calo, fisiologico e costante, delle pensioni di guerra. Tenuto conto del fatto che uno stesso soggetto può essere destinatario di più prestazioni, sono di fatto 3,7 milioni i beneficiari di trattamenti totalmente assistiti.
Mentre i trattamenti parzialmente assistiti sono 6,7 milioni, di cui 3,8 tra integrazioni al trattamento minimo, maggiorazioni sociali e importi aggiuntivi: a beneficiarne, al netto di duplicazioni e non considerando la quattordicesima mensilità, un totale di 2,8 persone.
Il totale dei pensionati totalmente o parzialmente assistiti è quindi pari a 6,5 milioni, vale a dire il 40,61% del totale.
Spesa pubblica per assistenza e previdenza
Il risultato è un aumento della spesa pubblica assistenziale che, come ha sottolineato il presidente di Itinerari Previdenziali, Alberto Brambilla, avviene mentre il debito pubblico «si avvicina pericolosamente ai 3mila miliardi e, secondo i dati Istat, il numero di persone in povertà continua a salire (quelle in povertà assoluta erano 2,113 milioni nel 2008 e 5,6 nel 2021):
verrebbe da dire che non solo spendiamo molto ma che spendiamo anche male. Ed è forse questa spesa eccessiva, abbinata agli scarsi controlli, a incentivare sommerso e lavoro nero, generando il tasso di occupazione peggiore in Europa.
Pensioni: il sistema ancora tiene
In ogni caso, sottolinea lo stesso Brambilla, a oggi il sistema è sostenibile e lo sarà anche tra 10-15 anni, nel 2035/40, quando la maggior parte dei baby boomer nati dal Dopoguerra al 1980 – in termini previdenziali assai significative data la loro numerosità – si saranno pensionate».
L’ex Sottosegretario al Lavoro individua una serie di azioni strategiche che bisognerebbe intraprendere.
- Aumentare l’età di pensionamento: malgrado la pensione di vecchiaia sia a 67 anni, l’età media di uscita dal mondo del lavoro è di circa 63 anni, «nonostante un’aspettativa di vita fra le più alte a livello mondiale». Brambilla ritiene che questa età debba «gradualmente aumentare evitando il ricorso a eccessive anticipazioni».
- Potenziare l’invecchiamento attivo dei lavoratori, attraverso misure volte a favorire un’adeguata permanenza sul lavoro delle fasce più senior della popolazione.
- Nuove politiche attive del lavoro, anche con un’intensificazione della formazione professionale on the job;
- prevenzione, «intesa in senso più ampio come capacità di progettare una vecchiaia in buona salute».
In definitiva, conclude Brambilla, «un serio cambio di rotta da parte del nostro Paese, che al momento naviga a vista, senza una bussola, dinanzi alla più grande transizione demografica di tutti i tempi», dando «la priorità alla revisione dei propri modelli produttivi e del proprio mercato del lavoro».