Stipendi fermi in Italia, in 30 anni sono cresciuti dell’1%

di Barbara Weisz

21 Dicembre 2023 13:40

I salari sono cresciuti dell'1% in 30 anni contro una crescita de 32% nell'area OCSE: bassa produttività, incentivi inefficienti, poca formazione, il rapporto INAPP 2023.

Negli ultimi trent’anni gli stipendi sono rimasti invariati, con una crescita dell’1% contro il +32,5% dell’area OCSE: è la fotografia del mercato del lavoro italiano che emerge dal Rapporto 2023 redatto da Inapp, Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche.

Bassi salari, scarsa produttività, poca formazione e un welfare che fatica a proteggere i lavoratori

Stipendi: OCSE batte Italia 32 a 1

Tra pandemia, guerre, rischio recessione e inflazione alle stelle, l’Italia è rimasta ferma mentre gli altri Paesi adeguavano le retribuzioni.

I salari nel 2020 hanno registrato un calo del 4,8 (la differenza più ampia con la crescita dell’area OCSE con un -33,6%) e scarsa produttività: il divario con l’area OCSE è del 25,5%, e si sta ampliando dalla seconda metà degli anni Novanta.

Nuove assunzioni: incentivi del tutto inefficienti

Le assunzioni non risultano particolarmente stimolate dagli incentivi. Se è vero che la metà delle imprese (il 54%) ha assunto nuovo personale dipendente, c’è da evidenziare che solo il 14% ha potuto utilizzare incentivi statali.

Il numero di assunzioni nel 2022 è persino peggiorato rispetto al 2021: 414mila nuove attivazioni nette nel 2022 a fronte di 713mila nel 2021.

Si conferma un numero di attivazioni maggiore per la componente maschile (54% rispetto al 46% delle donne) mentre la categoria dei giovani conferma il recupero di quote occupazionali: il 26% delle attivazioni del 2022 si concentra nella fascia dai 25 ai 34 anni, a seguire le quote dei 35-44enni (21%) e dei 45-54enni (20%).

I contratti incentivati sono stati il 23,7% di quelli attivati nel 2022, quasi 2 su oltre 8 milioni. Un’esigua percentuale di aziende (4,5%) ha preso decisioni di assunzione a causa dei programmi di incentivazione.

La probabilità di ricorrere a uno o più schemi di incentivazione all’occupazione è maggiore del 50% per le imprese di grandi dimensioni (con più di 250 addetti), mentre si riduce sensibilmente raggiungendo il 24% per le microimprese.

Le imprese del Mezzogiorno sono molto più propense a utilizzarle: circa il 38% delle imprese del Sud e il 36% di quelle localizzate nelle Isole dichiara di aver usato almeno un incentivo, contro il 20% (in media) delle aziende localizzate nelle altre aree.

L’incentivo più utilizzato è stata la Decontribuzione Sud che ha riguardato il 65% dei nuovi contratti, seguito dall’Apprendistato (20%) e dagli incentivi rivolti a target specifici: Esonero giovani con il 4,7% e Incentivo donne, che ha inciso per il 4,8% sull’occupazione totale.

Occupazione femminile ancora indietro

Nonostante la pluralità di incentivi in campo, nessuno di questi istituti è riuscito ad attivare almeno il 50% di donne. Dunque, la composizione e il relativo squilibrio di genere restano immutati. Inoltre, il 58,5% delle assunzioni agevolate delle donne è a tempo parziale, contro il 32,2% degli uomini.

Il ricorso agli incentivi riproduce lo scenario di un’occupazione femminile minore per quantità (le donne sono il 40,9% delle assunzioni agevolate) e con minori ore lavorate.

I punti critici del mercato del lavoro italiano

Il mercato del lavoro italiano si caratterizza poi per una serie di fenomeni critici in atto rilevati dal rapporto.

  • C’è una forza lavoro sempre più anziana. Nel 2002 ogni mille persone tra 19 e 39 anni poco più di 900 avevano fra i 40 e i 64 anni, nel 2023 quest’ultimo valore ha superato le 1.400 unità. Ogni mille lavoratori di 19-39 anni ci sono 1.900 lavoratori adulti-anziani.
    • Soprattutto nella pubblica amministrazione (3,9 lavoratori anziani ogni lavoratore giovane), e nel settore finanziario e assicurativo.
  • Le grandi dimissioni: il 14,6% degli occupati tra i 18 e i 74 anni (oltre 3,3 milioni di persone) ha pensato di dimettersi. Pochissimi (1,1%) lo farebbero anche se ci fosse una riduzione del tenore di vita, mentre il 13,5% farebbe questa scelta solo se trovasse altre entrate economiche.
    • Le quote più alte di chi ha intenzione di dimettersi, a prescindere dalla motivazione, si osservano in corrispondenza degli occupati con un diploma (18,9%), diminuiscono col crescere dell’anzianità anagrafica e delle dimensioni del comune di residenza.
    • A volersi dimettere sono gli occupati dipendenti, operanti nelle organizzazioni di media dimensione (15-49 addetti) e che svolgono la loro attività in imprese private.
    • Nel pubblico l’1,5% dei lavoratori (contro l’1% del privato) lo farebbe anche se questo comportasse una riduzione del tenore di vita.
    • Il desiderio di cambiare occupazione è maggiore per chi svolge lavori più faticosi e poco soddisfacenti.
  • Infine, bassi livelli di partecipazione alla formazione. La popolazione adulta di età compresa tra 25 e 64 anni che ha partecipato ad attività di istruzione e formazione è stata infatti nel 2022 pari al 9,6%. È un avanzamento del 2,4% rispetto al 2020, ma si confronta con l’11,9% europeo.