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TFS Statali, resta il pagamento posticipato

di Anna Fabi

Pubblicato 2 Maggio 2024
Aggiornato 24 Ottobre 2024 07:03

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TFS nella PA: resta il pagamento differito nonostante l'illegittimità costituzionale, e senza neppure la possibilità di anticipazione integrale nel 2024.

La liquidazione del TFS (Trattamento di Fine Servizio) ai dipendenti pubblici, anche se il pagamento differito è stato ritenuto illegittimo dalla Corte Costituzionale, resta posticipata.

Lo scorso marzo, la Ragioneria di Stato ha “rimandato al mittente” le proposte politiche di ridurre da un anno a tre mesi gli attuali tempi minimi di accredito della prima o unica tranche del TFR o TFS agli Statali e agli altri dipendenti della PA, avallate anche dall’INPS: i costi per risolvere il vulnus sono eccessivi e dunque rimane tutto invariato.

E per il 2024, tra l’altro, sono anche esauriti i fondi per chiedere all’INPS l’anticipazione integrale del proprio TFS, facendo un prestito direttamente con l’Istituto di Previdenza al tasso d’interesse dell’1%.

Facciamo dunque il punto della situazione.

Come funziona oggi il pagamento del TFS

In base all’articolo 3, comma 2, del decreto legge 79/1997, nel pubblico impiego il TFS viene versato a distanza di un anno dal termine del rapporto di lavoro, pagato a rate annuali se l’importo è superiore a 50mila euro (articolo 12, comma 7, del decreto 78 del 2010).

Il trattamento di fine servizio (comunque denominato) dei dipendenti publici viene  liquidato dopo 12 mesi dalla pensione e dopo 24 mesi se il rapporto di lavoro si interrompe per licenziamento o dimissioni del lavoratore. I tempi si allungano ancora di più in casi di pensione anticipata con formule come Quota 100-102-103.

TFS differito: la bocciatura della Consulta

La Consulta aveva già rivolto al Legislatore un monito nella sentenza 159/2019. Lo scorso giugno, con la sentenza 130/2023 veniva dichiarato in contrasto con i diritti costituzionali il pagamento ritardato della liquidazione ai dipendenti pubblici per violazione del diritto del lavoratore (in contrasto con il principio di giusta retribuzione, che «si sostanzia non solo nella congruità dell’ammontare corrisposto, ma anche nella tempestività dell’erogazione»):

spetta al legislatore, avuto riguardo al rilevante impatto finanziario che il superamento del differimento comporta, individuare i mezzi e le modalità di attuazione di un intervento riformatore che tenga conto anche degli impegni assunti nell’ambito della precedente programmazione economico-finanziaria.

I motivi dell’incostituzionalità

La norma censurata è l’articolo 3, comma 2, del decreto legge 79/1997. Secondo l’alta Corte, l’attuale quadro normativo è in contrasto con l’articolo 36 della Costituzione, che sancisce il diritto a una retribuzione proporzionata e dignitosa.

Il punto cruciale è la liquidazione è un elemento della retribuzione. Che fra l’altro, sottolinea la Corte, è volto a «sopperire alle peculiari esigenze del lavoratore in una particolare e più vulnerabile stagione della esistenza umana». Quindi, il pagamento eccessivamente ritardato del TFS «contrasta con la particolare esigenza di tutela avvertita dal dipendente al termine dell’attività lavorativa».

Inoltre, si legge nella sentenza, «la dilazione non è controbilanciata dal riconoscimento della rivalutazione monetaria». Tuttavia le questioni di legittimità costituzionale sono state giudicate inammissibili perché la Consulta ritiene che spetti comunque al legislatore superare questo nodo, che “in soldoni” vale miliardi.

Le richieste di correttivo al Legislatore

Nel 2019 la Corte aveva segnalato in merito di TFS (pur con riferimento a un aspetto diverso), «l’urgenza di ridefinire una disciplina non priva di aspetti problematici, nell’ambito di una organica revisione dell’intera materia».

Nel 2023 si è focalizzata sul vulnus normativo legato alla tempistica di pagamento prevista e chiede al legislatore un intervento, pur con la gradualità eventualmente necessaria,

ad esempio, optando per una soluzione che, in ossequio ai richiamati principi di adeguatezza della retribuzione, di ragionevolezza e proporzionalità, si sviluppi muovendo dai trattamenti meno elevati per estendersi via via agli altri.

Per intenderci, non un effetto automatico di decadimento della disposizione censurata ma un preciso invito al legislatore perché intervenga sanando il vulnus rilevato.

Da qui la richiesta dell’INPS al Legislatore di provvedere a risolvere il vulnus. Che tuttavia sembra che cadranno nel vuoto.

Il parere negativo della Ragioneria di Stato

Secondo la Ragioneria Generale dello Stato non ci sono i margini economici per anticipare a tre mesi (invece di un anno) il pagamento della prima rata del TFS, nè tanto meno per aumentarne l’importo a 63.600 euro (invece di 50mila euro): il costo annuo sarebbe di 3,8 miliardi  per il 2024.

In particolare, secondo l’INPS, l’importo medio lordo del TFS dei dipendenti pubblici che raggiungono la pensione di vecchiaia o i limiti di servizio è pari 82.400 euro. Costi troppo elevati che rendono impossibile l’attuazione di correttivi, neppure in modo graduale.

Da qui, la richiesta della RdS inviata alla Commissione Lavoro della Camera di non dare seguito alle proposte di legge migliorative dell’attuale disciplina.

Resta il pronunciamento della Consulta ed una discriminazione irrisolta su cui prima o poi il Parlamento dovrà intervenire.

Lo stop all’anticipazione integrale del TFS

Dal 25 aprile 2024, non è più possibile chiedere all’INPS un prestito agevolato per farsi anticipare il 100% della propria liquidazione, senza dover attendere anni.

I fondi per il 2024 sono esauriti in poco più di tre mesi. Il punto è che le risorse sono stanziate di anno in anno dal consiglio direttivo dell’INPS e, a meno di stanziamenti extra, per quest’anno “i giochi sono chiusi”.

Resta soltanto la meno appetibile e più difficoltosa opzione di prestito bancario fino ad un massimo di 45mila euro a valere sul proprio TFS: sebbene il tasso promesso è particolarmente esiguo, alla fine che gli istituti di credito che hanno aderito alla convenzione ABI sono pochissime (molte si sono “ritirate” lo scorso anno) e la procedura macchinosa per ottenere questa anticipazione (bisogna prima fare domanda all’INPS) rende lo strumento poco utilizzato.