Alcune evidenze confermano dati già noti (gender pay gap, scarsa partecipazione femminile al mercato del lavoro e abbandono dopo la nascita di figli), altre richiamano l’attenzione sulla necessità di una riforma degli ammortizzatori sociali volti a scongiurare alcune criticità di genere insite in alcuni strumenti di welfare: è quanto emerso dal “Rapporto Plus 2022. Comprendere la complessità del lavoro” curato da INAPP (Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche) e presentato alla vigilia dell’8 marzo, festa delle donne.
Maternità e uscita lavoro
Dopo la nascita di un figlio quasi una donna su cinque (il 18%) tra 18 e 49 anni smette di lavorare e solo il 43,6% permane nell’occupazione. Quest’ultimo dato si abbassa drasticamente nel Sud e Isole, dove scende al 29%. La motivazione prevalente è la necessità di conciliazione tra lavoro e cura (52%), seguita dal mancato rinnovo del contratto o licenziamento (29%) e da valutazioni di opportunità e convenienza economica (19%). C’è poi un 31,8% di donne che non lavoravano né prima né dopo la maternità.
Il fenomeno ha «pesanti effetti demografici ed economici», osserva il presidente INAPP, Sebastiano Fadda. «La maternità continua a rappresentare una causa strutturale di caduta della partecipazione femminile» al mercato del lavoro. «Il Paese non può più sopportare, oltre alla fuga di cervelli, anche questa altra forma di dispersione del capitale umano legata alla mancata valorizzazione e sostegno dell’occupazione femminile».
Anche la maggior preferenza delle donne per una serie di tipologie o modalità contrattuali (part-time, congedi parentali, smart working, telelavoro) conferma un modello familiare che relega la componente femminile nel ruolo di caregiver principale.
Impatto critico di strumenti di welfare
Il report evidenzia l’importanza del gender assessment, ovvero dello studio d’impatto delle novità legislative e degli strumenti di welfare sulle differenze di genere. Ebbene, negli ultimi anni ci sono state due conseguenze non previste di altrettante «mancate applicazioni del metodo di gender assessment a misure di welfare»:
- l’estensione della NASpI ai genitori che presentano dimissioni volontarie entro il primo anno di nascita del figlio,
- la conversione del premio di produttività in quota welfare aziendale.
NASpI per genitori si dimettono
L’accesso alla NASpI, previsto dal 2015, ha fatto salire sia il numero di dimissioni volontarie dei lavoratori sia delle lavoratrici, ma allargando la forbice fra i generi.
L’accesso alla NASpI, si legge nel report, «può rischiare di alimentare il fenomeno tipicamente femminile di abbandono del lavoro a seguito di maternità o per carichi di cura, costituendone un incentivo indiretto». Rafforzando «il tasso di inattività femminile, ampiamente superiore a quello maschile e superiore alla media europea proprio in presenza di carichi familiari».
Premi convertiti in benefit familiari
Passiamo al premio di produttività, quota aggiuntiva alla retribuzione che viene riconosciuta ai/alle dipendenti al raggiungimento di incrementi di produttività, redditività, qualità, efficienza e innovazione.
Le Leggi di Stabilità dal 2016 hanno previsto, nell’ambito del welfare contrattato, due modalità di erogazione del premio di risultato: in busta paga tassato al 10%, convertito in beni e servizi in regime di detassazione totale. Il rapporto Edenred sul welfare aziendale in Italia del 2022 evidenzia come la conversione del premio in benefit interessi il 20% dei beneficiari in costante crescita.
Pur non essendoci dati disaggregati uomo/donna, in ottica di gender assessment è possibile evidenziare come la conversione in welfare del premio monetario abbia una profonda implicazione di genere, pur in presenza di una misura concepita come universale: fra i servizi di welfare più utilizzati, infatti, ci sono quelli di cura, assistenza e sostegno familiare, bonus e facilitazioni alla gestione della casa e degli acquisti. Componenti che attengono all’esercizio di funzioni svolte in prevalenza da donne.
In Italia, la responsabilità di cura è in capo a 12 milioni e 746mila persone tra 18 e 64 anni, ovvero il 34,6% della popolazione, in prevalenza donne. Secondo ILO 2018, in Italia, le donne svolgono cinque ore e cinque minuti di lavoro non retribuito di assistenza e cura al giorno, mentre gli uomini un’ora e 48 minuti. Significa che le donne fanno il 74% del totale delle ore di lavoro non retribuito di assistenza e cura (siamo quinti in Europa, dopo Albania, Armenia, Portogallo e Turchia).
Il differenziale retributivo di genere si attesta in Italia nel 2021 al 43%17. Considerando le diverse caratteristiche della partecipazione maschile e femminile al mercato del lavoro e il principio di parità salariale, «la componente del salario che determina le maggiori differenziazioni di genere è proprio la parte variabile, sede di determinazione del premio di produttività». Quindi, in considerazione della specializzazione femminile nella funzione di cura e il gender pay gap, «la conversione del premio di produttività da monetario a servizio di welfare, in prevalenza nel settore della cura, per le donne rischia di rappresentare un rafforzamento delle citate criticità».
Impatto Covid sul lavoro femminile
Secondo il report INAPP, durante la pandemia si sono esacerbati i differenziali di genere: di fatto, fra coloro che hanno perso il lavoro nel periodo Covid ci sono più donne che uomini. Nel 2021 sono poi ripartite le assunzioni, con una ripartizione fra uomini e donne che sostanzialmente è analoga a quella dell’anno precedente: 54% per gli uomini e 46% per le donne.
Disparità retributive
La retribuzione media sconta una differenza di genere di oltre 3mila per gli impieghi part-time e di oltre 7mila per gli impieghi full-time a sfavore delle donne.
Tutto questo, in un Paese in cui le donne hanno titoli di studio e specializzazioni più elevate, con percentuali più che doppie rispetto agli uomini.