In Italia i lavoratori delle piattaforme digitali nel periodo 2020/21 ammontano a 570.521, una categoria che non comprende solo i rider ma anche un insieme eterogeneo di attività che spaziano dalla consegna di pacchi, pasti a domicilio fino allo svolgimento di compiti e traduzioni online.
Ai platform workers, inoltre, si aggiungono coloro che vendono prodotti (piattaforme pubblicitarie) o affittano beni di proprietà (piattaforme di prodotto), raggiungendo un totale di 2.228.427 persone che dichiarano di aver ricavato un reddito attraverso le piattaforme digitali.
A scattare una fotografia aggiornata dei platform workers è l’INAPP, che nel policy brief “Lavoro virtuale nel mondo reale: i dati dell’Indagine INAPP-Plus sui lavoratori delle piattaforme in Italia” mette nero su bianco come questo tipo di occupazione rappresenti una fonte di sostegno importante o addirittura essenziale nell’80,3% dei casi.
Oltre il 31% dei platform workers non ha un contratto scritto e solo l’11% ha un contratto di lavoro dipendente, operando in una sorta di “nuova precarietà digitale” messa in evidenza da Sebastiano Fadda, presidente INAPP che sottolinea come l’adozione della direttiva sulle condizioni di lavoro nelle piattaforme proposta lo scorso 9 dicembre possa rappresentare un importante punto di riferimento per regolamentare il lavoro delle piattaforme.
In tale nuovo contesto fino a cinque milioni e mezzo di lavoratori digitali in Europa potrebbero essere riclassificati come lavoratori subordinati, usufruendo così di alcuni diritti fondamenti (tra cui salario minimo, orario di lavoro, sicurezza e salute sul lavoro, forme di assicurazione e protezione sociale) finora negati.
I lavoratori delle piattaforme sono prevalentemente uomini, di età compresa tra 30 e 49 anni e con un titolo di studio non particolarmente diverso rispetto a quello della popolazione generale, se non per una maggiore presenza di diplomati.
Il report, inoltre, porta a galla il fenomeno del cosiddetto “caporalato digitale”: circa 3 lavoratori su dieci non hanno un contratto scritto e il 26% dei lavoratori non gestisce direttamente l’account per accedere alla piattaforma, mentre nel 13% dei casi il pagamento viene gestito da un ulteriore soggetto esterno. Il 72% della platea dei lavoratori coinvolti nell’indagine, inoltre, ha dovuto sottoporsi a un test valutativo spesso legato al numero di impegni o incarichi portati a termine ma anche al giudizio dei clienti.
Questo dato conferma suggerisce che, per molti lavoratori delle piattaforme, potrebbe trattarsi effettivamente di lavoro dipendente. La valutazione negativa, inoltre, per il 4,3% dei lavoratori porta al mancato pagamento della prestazione svolta e nel 2,8% dei casi conduce alla disconnessione forzata.