Il ritorno in ufficio ha ridotto nelle imprese il ricorso allo smart working ma il lavoro agile resta più diffuso rispetto al pre-Covid, soprattutto nelle grandi aziende, mentre le PMI sono più refrattarie: rispetto al periodo di lockdown, nel post-emergenza lavorano da remoto un milione e mezzo di persone in meno, soprattutto nelle piccole e medie imprese e nella Pubblica Amministrazione, ma la tendenza dopo il ritorno in ufficio vede le aziende pianificare forme strutturate di lavoro agile con un modello ibrido.
Un anno e mezzo di smart working
Secondo l’Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano, i cui risultati sono stati presentati il 3 novembre al convegno “Rivoluzione Smart Working: un futuro da costruire adesso“, a un anno dal primo lockdown si registravano 5,37 milioni gli smart worker italiani, di cui 1,95 milioni nelle grandi imprese, 830mila nelle PMI, 1,15 milioni nelle microimprese e 1,44 milioni nella pubblica amministrazione. Nel secondo trimestre 2021 il numero ha iniziato progressivamente a diminuire fino a 4,71 milioni, con il calo più consistente nel settore pubblico (1,08 milioni), seguito da microimprese (1,02 milioni), PMI (730mila) e grandi aziende (1,88 milioni). Infine, a settembre il numero degli smart worker si è attestato a quota 4,07 milioni: 1,77 milioni di lavoratori agili nelle grandi imprese, 630mila nelle PMI, 810mila nelle microimprese e 860mila nella PA.
Il new normal
Progetti di smart working strutturati o informali sono presenti nell’81% delle grandi imprese (contro il 65% del 2019), nel 53% delle PMI (nel 2019 erano il 30%) e nel 67% delle PA (contro il 23% pre-Covid). L’Osservatorio prevede che saranno 4,38 milioni i lavoratori che resteranno almeno in parte in smart working (+8%), di cui 2,03 milioni nelle grandi imprese, 700mila delle PMI, 970mila nelle microimprese e 680mila nella PA. Più nel dettaglio, lo smart working rimarrà o sarà introdotto nell’89% delle grandi aziende, dove aumenteranno sia i progetti strutturati sia quelli informali, nel 62% delle PA, in cui prevalgono le iniziative strutturate ma anche molta incertezza sul futuro (un quarto non sa se lo smart working potrà restare o iniziare nel post-Covid), e nel 35% delle PMI, fra cui prevale un approccio informale (22%) ed è forte la tendenza a tornare indietro (un terzo di quelle che ha sperimentato lo smart working prevede di abbandonarlo).
Nella maggior parte dei casi, il modello è ibrido, alla ricerca di un miglior equilibrio fra lavoro in sede e a distanza: nelle grandi imprese sarà possibile lavorare a distanza mediamente per tre giorni a settimana, due nelle PA. Questo impatta anche sull’organizzazione degli spazi di lavoro: il 55% delle grandi aziende e il 25% delle pubbliche amministrazioni ha avviato interventi di modifica degli spazi. La maggior parte delle organizzazioni non interverrà sulle dimensioni ma sull’organizzazione degli ambienti di lavoro, le altre si concentreranno sulla riduzione degli spazi (in particolare il 33% delle grandi aziende), non mancano infine organizzazioni (ad esempio il 18% delle PA) che prevedono un aumento degli spazi necessari.
Impatto e benefici
L’indagine riporta numeri e trend, ma analizza anche pro e contro rilevati dalle imprese e riporta il sentiment nei confronti del lavoro agile.
In termini di impatto sulle prestazioni tutte le organizzazioni mettono in luce il miglioramento del work life balance. Le grandi imprese e le PA evidenziano anche un deciso miglioramento di efficacia ed efficienza (quest’ultima migliorata per il 59% delle grandi imprese e il 30% delle PA contro rispettivamente il 5% e il 16% che dichiarano un peggioramento). Più incerto e controverso l’impatto nelle PMI. L’aspetto ritenuto più negativo da tutte le organizzazioni è invece quello della comunicazione tra colleghi, peggiorata per il 55% delle grandi imprese, il 44% delle PMI e il 48% delle PA (a fronte rispettivamente del 10%, 9% e 16% che dichiarano un miglioramento).
Per quanto riguarda i lavoratori, per il 39% è migliorato il proprio work-life balance, il 38% si sente più efficiente nello svolgimento della propria mansione e il 35% più efficace, secondo il 32% è cresciuta la fiducia fra manager e collaboratori e per il 31% la comunicazione fra colleghi. Ci sono anche ripercussioni negative: è diminuita la percentuale di smart worker pienamente ingaggiati (cioè legati all’azienda e attaccati al proprio lavoro, oltre che soddisfatti), passata dal 18% al 7% restando comunque, seppur di poco, superiore a quella degli altri lavoratori, che è pari al 6%. Il tecnostress (cioè gli impatti negativi a livello comportamentale o psicologico causati dall’uso delle tecnologie) ha interessato un lavoratore su quattro, in misura maggiore smart worker (28% contro il 22% degli altri dipendenti), donne (29% contro il 22% dei colleghi) e responsabili (27% contro il 23% dei collaboratori). Alcuni possibili effetti negativi del tecnostress sono il peggioramento del work-life balance, dell’efficienza e l’overworking. Nel complesso l’overworking (ovvero dedicare un’elevata quantità di tempo alle attività lavorative trascurando momenti di riposo) ha coinvolto il 13% dei lavoratori e in misura maggiore gli smart worker degli altri lavoratori (17% contro 9%), le donne degli uomini (19% contro 11%) e i manager rispetto ai collaboratori (19% contro 9%).
La ricerca analizza infine una serie di benefici sociali e ambientali dello smart working:
- inclusione delle persone che vivono lontano dalla sede di lavoro (81%), dei genitori (79%) e di chi si prende cura di anziani e disabili (63%);
- risparmi di tempo e risorse per gli spostamenti (123 ore l’anno e 1.450 euro in meno per ogni lavoratore che usa l’automobile per recarsi in ufficio);
- sostenibilità ambientale (minori emissioni per circa 1,8 milioni di tonnellate di CO2 ogni anno, pari all’anidride carbonica che potrebbero assorbire 51 milioni di alberi).
Questi benefici, spiega ancora Mariano Corso, responsabile scientifico dell’Osservatorio «potrebbero quasi raddoppiare se si estendesse l’applicazione dello Smart Working ai livelli che i lavoratori desiderano e che la pandemia ha dimostrato essere già possibili con le tecnologie attuali».
Secondo Corso il motivo per cui si torna al lavoro in presenza, è «la mancanza di cultura basata sul raggiungimento dei risultati. Un arretramento che si scontra con le aspettative dei lavoratori e gli obiettivi di digitalizzazione, sostenibilità e inclusività del nostro Paese. Ora è necessario costruire il futuro del lavoro sul vero Smart Working, che non è una misura emergenziale, ma uno strumento di modernizzazione che spinge a un ripensamento di processi e sistemi manageriali all’insegna della flessibilità e della meritocrazia, proponendo ai lavoratori una maggiore autonomia e responsabilizzazione sui risultati».
«Per cogliere tutti i benefici dello smart working serve l’impegno di tutti i soggetti – aggiunge Alessandra Gangai, direttrice della Ricerca Smart Working nella PA -. Alle organizzazioni spetta il compito di strutturare progetti coraggiosi, lavorando su policy, tecnologie, spazi di lavoro e stili di leadership; i lavoratori devono allenare skill più adeguate al nuovo work-life balance; i policy maker devono accompagnare questa trasformazione con onestà intellettuale e lungimiranza».