Tratto dallo speciale:

Coronavirus: lo smart working è quasi un obbligo

di Barbara Weisz

13 Marzo 2020 09:00

logo PMI+ logo PMI+
In base al Decreto 11 marzo, le imprese devono fare il massimo utilizzo dello smart working, quindi per i Consulenti del Lavoro diventa un diritto del dipendente.

Lo smart working non più solo semplificato ma primaria alternativa praticabile durante l’emergenza Coronavirus, con il massimo utilizzo da parte di imprese e datori di lavoro e applicazione in tutti i casi in cui è possibile: è una delle indicazioni del Dpcm in vigore fino al 25 marzo e rilevante non solo per il diverso accento posto sul ricorso al lavoro agile come strumento per contenere l’emergenza Coronavirus.

Secondo i Consulenti del Lavoro, la ratio della norma configura lo smart working come un diritto, che il lavoratore può chiedere anche se l’azienda non lo ha predisposto.

=> Negozi e non solo: cosa resta aperto in dettaglio

La Fondazione Studi Consulenti del Lavoro, con circolare 7/2020, sottolinea le differenze del nuovo decreto rispetto a quanto indicato nel precedente Dpcm 9 marzo, che si limitava a suggerire il lavoro agile come come possibile soluzione all’esigenza di limitare la mobilità delle persone (onde arrestare il contagio).

Cosa dice la nuova legge

  • La”vecchia” norma (Dpcm 9 marzo) lo prevedeva dunque come modalità che poteva «essere applicata» dai datori di lavoro anche in assenza di accordi individuali.
  • La “nuova” (Dpcm 11 marzo) dispone invece che: «sia attuato il massimo utilizzo da parte delle imprese di modalità di lavoro agile per le attività che possono essere svolte al proprio domicilio o in modalità a distanza».

=> Smart Working: il fac-simile di accordo

Quindi, sottolineano i consulenti del lavoro, i datori di lavoro privati devono «verificare la potenziale compatibilità delle lavorazioni all’interno dei propri processi produttivi e di servizio con le peculiarità dello smart working, che consente di dare piena attuazione alla direttiva generale di rimanere nelle proprie case, anche per svolgere la prestazione lavorativa».

Oltre alla disposizione sopra richiamata, c’è anche il comma 10 dell’articolo 1 che prevede «per tutte le attività non sospese» il «massimo utilizzo del lavoro agile».

Non sono previste sanzioni per i datori di lavoro che non applicano lo smart working, però c’è una «decisa ed evidente presa di posizione del governo in tale direzione».

La ratio della norma è chiara. E, secondo i Consulenti del Lavoro, «consente di ritenere plausibile la sua pretendibilità anche da parte dei lavoratori qualora il difetto del ricorso al lavoro agile non appaia giustificato da ragioni organizzative o produttive oggettive, senza escludere la possibilità di una richiesta anche risarcitoria, qualora l’alternativa si possa essere risolta in termini negativi della sfera giuridica ed economica dei lavorati interessati».

E’ una considerazione importante, che potrebbe spostare l’asticella verso una sorta di «diritto allo smart working», che il lavoro può chiedere di applicare.

Questa lettura, secondo la circolare della Fondazione Studi, «discende direttamente dall’applicazione del bilanciamento di interessi disposta dall’art. 41 della nostra Costituzione, il quale, se al comma 1 sancisce la libertà dell’iniziativa economica e la dell’imprenditore, al comma 2 ne comprime straordinariamente la libertà in tutte quelle occasioni in cui la propria azione possa anche solo potenzialmente recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana».

Viene anche citato l’articolo 2087 del codice civile, che «impegna il datore di lavoro ad adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica dei prestatori di lavoro, potendo bene includere fra queste l’adozione, fortemente semplificata, del lavoro agile».