I lavoratori subordinati hanno, per legge, l’obbligo di fedeltà al datore di lavoro. Questo principio va letto in modo più ampio di quanto previsto dall’art. 2105 c.c., che vieta al dipendente di trattare affari inconcorrenza con il proprio datore di lavoro, divulgare notizie su organizzazione e metodi di produzione dell’impresa o farne uso in modo da recarle pregiudizio.
Questa disposizione va infatti integrata con quanto previsto dagli articoli nn. 1175 e 1375 c.c., che impongono correttezza e buona fede anche fuori dall’ufficio, imponendo comportamenti tali da non danneggiare il datore di lavoro.
Fedeltà extra-lavoro
In varie occasioni, la Corte di Cassazione si è espressa in tema di licenziamento per violazione dell’obbligo di fedeltà al datore di lavoro, sottolineando come il lavoratore non sia solo obbligato ad astenersi dai comportamenti espressamente vietati dall’art. 2105 c.c. ma anche da qualsiasi condotta che, per la natura e le possibili conseguenze, risulti in contrasto con i doveri connessi al suo inserimento nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa.
Questo include lo svolgimento di attività potenzialmente produttive di danno (Cass. sez. Lav. 4.4.2005 n. 6957; Cass. sez. lav. 1.2.2008 n. 2474) e, quindi, in contrasto con gli interessi del datore di lavoro.
=> Lavoratori: obbligo di fedeltà non soltanto sul lavoro
Ad esempio, nella sentenza n. 3822/2011 della Corte di Cassazione si legge:
Il carattere extralavorativo di un comportamento non ne preclude, poi, la sanzionabilità in sede disciplinare, quando la natura della prestazione dovuta dal lavoratore subordinato richieda un ampio margine di fiducia esteso ai comportamenti privati.
Infatti gli artt. 2104 e 2105 cod. civ., richiamati dall’art. 2106 in tema di sanzioni disciplinari, non escludono il dovere di diligenza del subordinato riferito a doveri strumentali e complementari che concorrono a qualificare il rapporto. L’obbligo di fedeltà va inteso in senso ampio e si estende a comportamenti in contrasto con i doveri connessi al far parte di un’organizzazione d’impresa o che creino situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi dell’impresa.
Nel caso esaminato dai giudici, con la sentenza n. 144/2015, l’attività svolta dal dipendente non era compatibile con le condizioni fisiche che ne avevano ridotto la capacità lavorativa: in questo modo, il lavoratore si era esposto al rischio di aggravamento.
Un comportamento contrario, per i giudici, ai doveri di buona fede e correttezza, talmente grave ed irrimediabilmente lesivo del rapporto fiduciario con l’azienda da legittimare il licenziamento da parte del datore di lavoro che, in ragione delle condizioni di salute già di per sé compromesse, aveva assegnato al lavoratore mansioni ridotte e diverse da quelle precedentemente svolte.