La stretta sui contratti a termine inserita nel Decreto Dignità del Governo riguarda costi e flessibilità, con paletti più rigidi e costi più alti sui rinnovi. E c’è anche un aumento dell’indennità risarcitoria in caso di licenziamenti illegittimi (che vale per tutti i contratti di lavoro dipendente, a termine o a tempo indeterminato).
Risultato: critiche dagli industriali, che temono un impatto negativo sulla crescita e sul mercato del lavoro, con un aumento del contenzioso e del ricorso al nero. Decisamente più positivo il commento dei sindacati, anche se la Cgil auspica una più coraggiosa riforma del mercato del lavoro.
Il nuovo contratto a termine
Innanzitutto, le misure:
- i contratti a termine hanno durata complessiva (rinnovi compresi) di massimo 24 mesi (non più 36). Successivamente bisogna trasformarli in contratti a tempo indeterminato;
- torna la causale: se il contratto dura più di 12 mesi, e comunque per ogni rinnovo, l’impresa deve dettagliare le motivazioni per cui rinnova il contratto senza passare al tempo indeterminato;
- rinnovi: scende a 4 (da 5) il numero di rinnovi possibili nell’arco dei due anni;
- contributo aggiuntivo: ogni rinnovo costa all’impresa un contributo aggiuntivo dello 0,5%;
- indennità di licenziamento: in caso di licenziamento ingiustificato, l’impresa paga un’indennità da un minimo di 6 a un massimo di 36 mesi (per tutti i contratti da lavoro dipendente, anche per le tutele crescenti);
- equiparazione della somministrazione: tutte le regole sopra esposte valgono anche per i contratti in somministrazione.
Pro e contro
Partiamo dagli obiettivi che dichiaratamente il Governo intende perseguire con la riforma dei contratti a termine: privilegiare il rapporto a tempo indeterminato, riconducendo il contratto a termine a una serie determinata di ambiti (sostituzioni, esigenze produttive particolari, lavori stagionali, e via dicendo).
Il ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico Luigi Di Maio ha spiegato che il lavoro stabile aumenta la crescita e quindi stimola l’economia, a tutto vantaggio anche delle stesse imprese.
Il Governo, che dichiara di aver così iniziato una sorta di rottamazione del Jobs Act, in realtà prosegue sulla linea tracciata dalla Riforma Renzi, che ha introdotto il contratto a tutele crescenti proprio per rendere più flessibile il mercato del lavoro, togliendo l’obbligo di reintegro previsto dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori in caso di licenziamento senza giusta causa, stimolando in questo modo le aziende ad assumere a tempo indeterminato.
Il Jobs Act per i primi due anni è stato in questo senso supportato da incentivi alle assunzioni stabili, che hanno effettivamente comportato un aumento dei contratti a tempo indeterminato. Il trend si è però interrotto con il termine delle agevolazioni, mentre i contratti a termine hanno continuato a crescere.
L’esecutivo pentaleghista cerca a sua volta di privilegiare il tempo indeterminato, ma invece che dare incentivi in questo senso percorre la strada opposta, rendendo più costoso il contratto a termine. Anche questo è il proseguimento di una strada iniziata proprio con il Jobs Act.
Secondo le imprese, però, inserire misure rigide in un contesto di ritorno alla crescita è negativo per l’economia, e in realtà il mercato del lavoro non è destinato a trarne vantaggio, anche perché rischiano di aumentare contenzioso e ricorso a forme di lavoro sommerso.
Altre considerazioni si possono fare in relazione al rischio che le imprese reagiscano senza rinnovare a tempo indeterminato i contratti a termine, lasciandoli anzi scadere assumendo, sempre a termine, nuovi lavoratori. Anche se, lo ricordiamo, restano altri paletti a presidiare questi rischi, come il limite del 20% di contratti a termine sul totale dell’organico, la necessità del causalone, il rischio di contenzioso.
I sindacati invece approvano l’impianto generale, pur sostenendo la necessità di misure più coraggiose: la Cgil ritiene che il provvedimento manchi «di coraggio nell’affrontare, attraverso un intervento organico, un profondo ridisegno delle regole del mercato del lavoro».
Infine, con un po’ di malizia, si potrebbe sottolineare che c’è un pro per l’INPS, che incassa lo 0,5% sui rinnovi di contributo addizionale.