Con la sentenza n. 8419/2018, confermata da quella n. 4896 del 23 febbraio 2021, la Corte di Cassazione ha dichiarato legittimo il licenziamento per sopravvenuta inabilità al lavoro se il dipendente non è più in grado di svolgere le mansioni precedenti e non vi è possibilità di ricollocazione in mansioni alternative, anche inferiori (repeache) in modo ragionevole per l’organizzazione aziendale.
Con l’ordinanza n. 15002 del 29 maggio 2023, tuttavia, la Suprema Corte ha afferma che, in questi casi, resta in capo al datore di lavoro l’onere di dimostrare di aver vagliato tutti i possibili adattamenti organizzativi che consentano di salvaguardare il posto del dipendente.
Bilanciamento degli interessi tra le parti
Si tratta quindi di verificare caso per caso se vengono rispettati in modo bilanciato sia i diritti del lavoratore sia quelli dell’azienda in base al principio di ragionevolezza previsto dall’articolo 2103 del Codice Civile, che tutela anche le posizioni lavorative degli altri lavoratori.
I giudici chiariscono infatti che, in caso di invalidità permanente, il datore di lavoro deve verificare se nella propria organizzazione esistono posizioni di lavoro confacenti, anche se di livello inferiore, ma l’eventuale ricollocazione del dipendente non deve essere in conflitto con l’interesse dell’impresa.
In pratica l’assegnazione in altra mansione deve essere compatibile con gli interessi datoriali e, comunque, non deve essere tale da snaturare l’organizzazione dell’impresa.
In sostanza, sulla base del principio di bilanciamento dei diversi interessi di conservazione del posto e libertà di impresa, deve essere ritenuto legittimo il licenziamento del dipendente che abbia sviluppato una permanente inabilità al lavoro, a condizione che nell’ambito dell’organizzazione aziendale non sussistano posizioni alternative, anche di contenuto professionale inferiore, cui adibire il dipendente in un’ottica di salvaguardia del posto di lavoro.
Pertanto, se l’assegnazione a nuove mansioni funzionali alla conservazione del posto comporta un disallineamento rispetto all’assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall’imprenditore, viene meno l’onere di ricollocare il dipendente e la risoluzione del rapporto di lavoro è pienamente legittima.
Conservazione del posto di lavoro: quando scatta
In linea generale, il datore di lavoro ha l’onere di provare che sussistono le motivazioni che giustificano il recesso unilaterale, dimostrando sia lo stato di inidoneità del lavoratore sia l’impossibilità di assegnazione a mansioni compatibili.
Se non emerge chiaramente che al lavoratore non possono essere assegnate altre mansioni di contenuto equivalente o, in loro mancanza, di natura inferiore, la sopravvenuta infermità permanente del dipendente non costituisce giustificato motivo oggettivo di licenziamento per impossibilità della prestazione lavorativa, a meno che non sia lo stesso interessato a negare il proprio consenso a ricoprire le mansioni proposte.
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In questi casi, dunque, il licenziamento di un lavoratore diventato inabile non è legittimo e il dipendente diventato inabile, licenziato nonostante la possibilità di essere ricollocato in altre mansioni, può impugnare tale decisione, essere reintegrato e ricevere un risarcimento.