Con la Sentenza n. 3459/2018 la Corte di Cassazione ha stabilito l’addio all’obbligo per il datore di lavoro di comunicare all’Istituto di previdenza qualsiasi variazione e di dare informazioni per consentire la verifica dei presupposti della classificazione ai fini previdenziali.
DM 1o ed E-mens
Nel caso in esame i giudici supremi hanno respinto il ricorso INPS che aveva emesso cartella esattoriale per il mutamento d’ufficio della classificazione della impresa per via della variazione del numero dei dipendenti successiva al passaggio da impresa artigiana a industriale, ritenendo che tale informazione fosse già a disposizione dell’Istituto a fronte della trasmissione del DM 10 e degli E-mens contenenti i dati relativi al numero dei dipendenti ed alla loro tipologia.
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Comunicazione variazione all’INPS
Nella pronuncia, la Cassazione richiama l’art. 3,comma 8 della legge 335/1998, secondo il quale:
I provvedimenti adottati d’ufficio dall’INPS di variazione della classificazione dei datori di lavoro ai fini previdenziali, con il conseguente trasferimento nel settore economico corrispondente alla effettiva attività svolta producono effetti dal periodo di paga in corso alla data di notifica del provvedimento di variazione, con esclusione dei casi in cui l’inquadramento iniziale sia stato determinato da inesatte dichiarazioni del datore di lavoro.In caso di variazione disposta a seguito di richiesta dell’azienda, gli effetti del provvedimento decorrono dal periodo di paga in corso alla data della richiesta stessa. Le variazioni di inquadramento adottate con provvedimenti aventi efficacia generale riguardanti intere categorie di datori di lavoro producono effetti, nel rispetto del principio della non retroattività, dalla data fissata dall’INPS. Le disposizioni di cui al primo e secondo periodo del presente comma si applicano anche ai rapporti per i quali, alla data di entrata in vigore della presente legge, pendano controversie non definite con sentenza passata in giudicato.
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Quindi i giudici precisano che tale disposto normativo:
Non prevede comunque un obbligo a carico del datore di lavoro di comunicare all’INPS qualsivoglia variazione a seguito del mutamento dell’attività svolta. Né in particolare prevede l’obbligo delle aziende di effettuare specifiche dichiarazioni preventive appositamente destinate al fine esclusivo di consentire all’INPS la verifica dei presupposti per la classificazione dell’impresa.
La Corte ricorda poi che l’art. 2 d.l. 352/78 convertito in L. 4 agosto1978, n. 467 (intitolato cessazione, variazione o sospensione di attività), richiamato dall’INPS tra le motivazioni con le quali ha proposto ricorso in Cassazione, prevede che:
In caso di sospensione, variazione o cessazione della attività, il titolare o il leale rappresentante dell’impresa sono tenuti a farne comunicazione entro trenta giorni, alla camera di commercio, industria, artigianato ed agricoltura e agli enti previdenziali gestori di forme di previdenza e assistenza obbligatorie nei cui confronti è sussistito il relativo obbligo assicurativo. In caso di mancato adempimento è dovuta a ciascuno degli enti nei cui confronti si è verificata l’omissione la somma di L. 50.000 a titolo di sanzione amministrativa. Sono abrogate le precedenti disposizioni che prevedono sanzioni per la stessa materia.
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Con riferimento a tale norma i giudici chiariscono che essa:
Non si riferisce alla classificazione dell’impresa a fini previdenziali, ma impone un obbligo di comunicare la sospensione, variazione o cessazione della attività aziendale. Essa non prevede l’obbligo di comunicare un qualsiasi altro fatto, anche differente dalla variazione di attività, che funga da presupposto per la classificazione dell’impresa (come il numero dei dipendenti). Inoltre, essendo assistito da sanzione amministrativa, si tratta di precetto non estensibile per via analogica a tutti i fatti rilevanti ai fini della classificazione dell’impresa. Peraltro si tratta di ipotesi normativa neppure posta a base della pretesa formulata con la cartella opposta in relazione alle contestazioni di cui al verbale di accertamento ispettivo (nel quale pacificamente non si discute del precetto in questione).
Fonte: Sentenza Cassazione