Da anni si assiste e si ascolta sui mezzi di comunicazione alla retorica “startuppara”. Politici, economisti ed esperti di management spesso vedono, nella creazione di una start-up, un modo per creare occupazione e valore per la società in cui l’azienda viene fondata. Ma è proprio come ce la raccontano? In parte si, e in parte no.
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La mitologia delle start-up nasce in America, la nazione per antonomasia culla dell’innovazione: si pensi ai grandi successi di imprese come Facebook, Amazon, Apple e alle figure geniali dei re della Silicon Valley. Zuckerberg, Bezos, Jobs ed altri “alieni”. Certamente questi sono esempi virtuosi che hanno stimolato, anche in Italia, molti giovani talentuosi a fondare una propria start-up, che poi si è rivelata un successo. Come la recente Team World, fondata da Marco Morini, il 35enne di Reggio Emilia. Eppure alcuni dati raccolti dall’economista americano Robert Litan, dimostrano che qualcosa sta cambiando anche nell’Eldorado delle start-up.
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Negli ultimi trent’anni la natalità delle start-up americane ha subito un rallentamento evidente: le aziende con meno di un anno sono scese dal 15% di tutte le imprese americane nel 1978 all’8% nel 2011. Se le nuove aziende sono diminuite, quelle più mature sono aumentate del 23% dal 1992 al 34% del 2011. E’ bene quindi sottolineare, come la creazione di una start-up comporti sempre un grosso rischio, che in alcuni casi può tradursi in successo e innovazione, in altri (la maggio parte dei casi) in un fallimento. Molto interessante a questo proposito è un intervista rilasciata da Richard Sennet, il noto sociologo della London School of Economics, che sembra voler guardare al passato, piuttosto che al futuro, per la creazione di “veri” posti lavoro.
Fonte:Team World