Un’azienda che dichiari fallimento non è esente dalle richieste del Fisco, che ha il diritto di “pretendere” quanto gli spetta come un qualunque creditore, però soltanto se lo fa secondo i medesimi termini temporali. Lo ha sentenziato la Corte di Cassazione.
In pratica, l’Agenzia delle Entrate non può avanzare richiesta dopo 12 mesi dalla data del fallimento (data ultima prevista dalla legge per tutti i creditori).
Con una sentenza dei primi giorni di ottobre, la Suprema Corte ha accolto il ricorso presentato da una Spa in fallimento, che lamentava il ritardo di Equitalia nell’insinuarsi al passivo. La società di riscossione aveva infatti presentato istanza più di un anno dopo l’avvio della procedura concorsuale, e quindi fuori dal termine fissato dalla legge per tutti i creditori.
Nella motivazione, si spiega chiaramente che l’amministrazione finanziaria, come tutti gli altri creditori, “deve in linea di principio rispettare il termine annuale di cui all’art. 101 della legge fallimentare per la presentazione delle istanze tardive di insinuazione”. Il termine ultimo, pertanto, è annuale. Non è possibile sfruttare i tempi, in genere più lunghi, previsti per la formazione dei ruoli e l’emissione delle cartelle, che erano stati indicati da Equitalia come i tempi di riferimento considerati per la presentazione dell’istanza: una volta che l’amministrazione finanziaria viene messa a conoscenza del fallimento, si deve immediatamente attivare per una tempestiva insinuazione.
Soltanto la presenza di motivazioni oggettive, non imputabili al creditore e che gli impediscono di presentare un’insinuazione al passivo nei tempi previsti, costituisce ragione valida per insinuazione oltre il termine annuale.
Il Fisco non ha dunque un trattamento privilegiato e, almeno nella riscossione crediti, si può affermare che la legge è uguale per tutti.