C'è stato un periodo, nel nostro Paese, in cui eravamo abituati ai cosiddetti “Decreti di Ferragosto“: mentre gli italiani, si godevano le sospirate vacanze, Governi e Parlamenti emanavano norme che costituivano una sorpresa al rientro del distratto popolo dei vacanzieri. Questo comportamento andava forse (sin da allora) interpretato come una sorta di monito a non abbassare mai la guardia verso un legislatore che, in alcuni momenti, si dimostrava più fantasioso del solito.
Anche quest'anno si è ripetuta la medesima dinamica, così, mentre gli italiani dell’estate 2008, tentavano di assicurarsi un minimo di oblio dalle preoccupazioni che si prospettavano per l'autunno, e ad al più concentrati sugli effetti della corsa al rialzo dell'oro nero (e relative ricadute sul prezzo dei carburanti), il Governo ed il Parlamento il 6 agosto, hanno dato il via libera, con la legge 6 agosto 2008 n.133 (disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività , la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria) ad una norma che in un colpo solo rischia di trasformare ciò che viene considerato un elemento necessario, peraltro sempre più scarso, per il soddisfacimento di un bisogno primario in un potenzialmente nuovo e formidabile strumento per conseguire profitti.
Nella distrazione quasi generale, ancora storditi dai colpi della crisi finanziaria, ecco l'articolo 23 bis della legge 133 che obbliga i Comuni a cedere al mercato entro il 2010 la gestione delle loro reti idriche, prescindendo dal funzionamento del servizio e da una gestione svolta efficacemente.
Già dal 2002 le aziende municipalizzate erano obbligate a trasformarsi in Spa, e pur mantenendo i Comuni la maggioranza azionaria, la trasformazione delle ex municipalizzate ha consentito l'ingresso di banche, industrie e società multinazionali, con esperienze di gestione privata del sistema idrico considerate insoddisfacenti.
La gestione economica affidata ai privati, con il mantenimento delle reti idriche in mano pubblica, con costi di manutenzione a carico della tassazione collettiva, rischia di porre qualche (serio) problema anche alle Pmi e alle microimprese, che utilizzano questo elemento nel proprio ciclo produttivo.
Risulterebbero sostanzialmente private di un reale potere contrattuale, in uno scenario realistico in cui, pur adottando politiche di risparmio idrico ed a fronte di una diminuzione dei consumi, vedrebbero vanificati probabilmente i loro sforzi, dal momento che i privati gestori del servizio a causa della diminuita erogazione, si considererebbero comunque autorizzati ad alzare le tariffe per far quadrare i propri bilanci aziendali.
Si tratterebbe dunque di un ulteriore elemento in grado di mettere fuori mercato un segmento di imprese già attualmente in discreta sofferenza. Dunque bere o affogare; o più probabilmente perire di sete.