Lifelong Learnig: aziende italiane indietro nell’apprendimento permanente

di Giuseppe Leonzio

Pubblicato 29 Settembre 2008
Aggiornato 12 Febbraio 2018 20:43

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Cosa accade nel processo di apprendimento quando tutti noi, terminato il percorso formativo “istituzionale” entrando in un contesto lavorativo, dedichiamo gran parte delle nostre riserve di cognizione e di tempo al lavoro?

In base ai rapporti e gli studi pubblicati sulla materia questo è uno dei punti dolenti per l’apprendimento permanente perché nel lavoro si trova molta conoscenza derivata dal condividere e dal fare, ma quante sono le aziende che vedono nel percorso formativo dei loro dipendenti una risorsa?

Molto spesso esistono benefit per corsi di formazione legati ai risultati, piani di carriera che al loro interno incorporano la crescita culturale dell’individuo e, nel caso di elevata quanto rara sensibilità , un tutor che segue il percorso formativo con cadenza periodica.

In questo contesto, si apre uno scenario nel quale dovremmo discutere su come il sistema impresa italiano stia affrontando questo argomento partendo dal dato che per le imprese ed il legislatore il nostro apprendimento in azienda si traduce in formazione continua.

Se si analizza il rapporto pubblicato dall’Istat si può constatare che fino al 2005 solo il 32% delle imprese hanno investito in formazione, dato che suona un po’ come misero ma decisamente più elevato del 15% del 1993.

Ovviamente, analizzando i dati più accuratamente se ne possono ricavare diverse indicazioni, ma per quanto mi riguarda le più significative sono due.

La prima è che più cresce il numero dei dipendenti e più cresce l’investimento visto che si passa dal 25% delle aziende con 10-19 addetti al quasi 97% delle aziende con 1000+ addetti, dato lapalissiano ma preoccupante visto che la maggior parte delle aziende in Italia sono al di sotto del 250 addetti.

La seconda è che a livello europeo sul totale delle imprese con formazione continua siamo terzultimi con un desolante 32% superando la Bulgaria e la Grecia ma, dato principale, siamo ben al di sotto della media europea (60%) e lontanissimi dalla Gran Bretagna (90%).

La situazione peggiora se si considera che il dato aggregato della “formazione continua” in realtà  risulta composto da diverse voci e che, leggendo il rapporto 2007 sulla formazione continua in Italia dell’ISFOL, le Pmi italiane (10-249 dipendenti) investono per lo più in formazione su aspetti necessari all’espletamento delle funzioni operative come la sicurezza, l’igiene, etc. (circa il 70%), allo studio di altre lingue e alla conoscenza di materie informatiche viene destinato rispettivamente il 13% ed il 20% del budget.

In questo contesto risulta difficile parlare di lifelong learning e di economia della conoscenza. Un modo rapido per invertire questa tendenza è di rivedere il meccanismo dei benefits aziendali sia dal lato impresa e sia dal lato dell’incentivazione in materia da parte del legislatore.

Alcune curiosità :

  • in Francia le imprese devono investire l’1,5% del loro fatturato in formazione per i loro dipendenti o altrimenti pagare l’equivalente in tasse
  • in Austria, Lussemburgo e Olanda la deduzione degli investimenti in formazione è del 120% di quanto speso (come si legge nel whitepaper dell’OCSE Job-Realted Training and Benefits for Individuals)
  • le azioni possibili da utilizzare per migliorare il settore della formazione in azienda sono riportate nel paper pubblicato dall’OECD in merito al lifelong learning.