I manager italiani? Competenti, creativi e innovativi. Ma penalizzati dallo scenario competitivo che li circonda. E’ questo il quadro in chiaro scuro dipinto dal Rapporto Management Forum 2007 – Le competenze per lo sviluppo, realizzato da Fondirigenti e presentato nei giorni scorsi a Reggio Emilia, presso l’Associazione degli Industriali.
Uno scenario preoccupante, quindi, nonostante le buone premesse: il nostro è un tessuto imprenditoriale vivo, ma allo stesso tempo “affossato” da quel medesimo anatema gettato (a buon ragione) nei mesi scorsi dal Censis nel consueto rapporto su società , economia, industria e mercato italiano nel 2007: l’impresa italiana cresce ma paradossalmente non si sviluppa.
Cosa vuol dire? Innanzitutto che in Italia ad innovare sono essenzialmente i “piccoli”, meno impastoiati da immobilismi e dinamiche spesso ostili a quello sviluppo concreto fatto di investimenti pratici in innovazione.
In secondo luogo, però, quell’allarme si ricollega al nuovo segnale di pericolo lanciato da Fondirigenti: lo spazio per innovare con creatività e flessibilità in Italia è ancora poco, anche a causa del limitato raggio d’azione dei dirigenti italiani.
Lo studio sullo stato dell’arte del Management del Bel Paese pone sul piatto questioni spinose: quanto spazio lascia la nostra economia alle figure manageriali capaci e competenti? Poco, considerato che lo scenario italiano è ampiamente segnato dalla presenza attiva sul territorio di Pmi (95%) le quali, tuttavia, tendono troppo spesso ad “operare in casa“, ponendo ai vertici d’azienda il capofamiglia.
Secondo il rapporto Fondirigenti, infatti, non solo l’82% delle gruppi industriali è a conduzione familiare ma anche il 67,9% dei manager d’Italia lavora proprio in Pmi in cui il proprietario è anche responsabile d’impresa.
Cosa accade quando i trend e le dinamiche di mercato impongono una “svolta”, un riassetto, un rinnovamento strutturale atto a portare nuove competenze in azienda? Succede che il meccanismo dell’innovazione rischia di incepparsi!
Secondo il rapporto, infatti, solo nel 27% di tali “family business” si è registrato quel necessario passaggio generazionale foriero di nuova linfa dirigenziale in azienda (leggi: nuove professionalità in linea con le esigenze di rinnovamento).
Piuttosto, magari, si tende a mantenere ai vertici la figura “familiare”, tutt’al più affiancandola da quadri dirigenziali (nel 30% dei casi), che però mancano della necessaria autonomia operativa. Il modello imprenditoriale tutto italiano del “family business” ha anche i suoi punti di forza, per carità . Ma ama allo stesso tempo può contribuire a sbilanciare lo scenario competitivo globale. Risultato? Troppi giovani manager capaci e volitivi sottovalutati, a scapito dei risultati di business!
Per concludere, un dato su tutti giusto per riflettere: soltanto il 58% dei manager industriali è laureato. Questo non significa che la competenza venga solo dai libri, ci mancherebbe. Ma una formazione completa e al passo coi tempi non può che aiutare a dirigere meglio un’impresa, che deve costantemente competere con un mercato sempre più agguerrito e globalizzato…o no?