Negli ultimi decenni, i processi produttivi hanno assunto un crescente assetto internazionale, con le attività e le fasi di produzione sempre più frammentate e dislocate su geografie diverse. Molte aziende hanno scelto di spostare all’estero parti dei propri processi che prima erano svolti in casa, per avvantaggiarsi di risparmi di costo o per beneficiare di nuova domanda. Gli Investimenti Diretti Esteri (IDE) sono stati più volte messi sotto accusa nel dibattito pubblico come una possibile causa dell’impoverimento dell’economia nazionale per effetto di una presunta “perdita” di attività a beneficio dei Paesi di destinazione, se non viene rimpiazzata da altra produzione locale. È vero?
La teoria dice di no. In generale, IDE ed export interagiscono positivamente nello stimolare la crescita del Paese di origine. Se è vero che talvolta l’investimento all’estero diventa un sostituto dell’esportazione, numerosi studi provano che tra le due forme di internazionalizzazione prevale una relazione di complementarietà: gli investimenti all’estero generano maggiore competitività nei mercati oltreconfine, creano domanda per altri prodotti lungo la catena di fornitura, come beni intermedi e servizi per la realizzazione del prodotto finale, stabiliscono una piattaforma logistica di accesso ai mercati limitrofi, oppure modificano le abitudini di consumo – e di conseguenza la domanda – del Paese di destinazione a favore dei prodotti (anche di altre industrie) del Paese di origine. L’Ocse ha calcolato che un investimento all’estero genera nel tempo esportazioni, per il Paese che lo effettua, pari al doppio del valore dell’investimento.
E nella pratica? Benché il dibattito su complementarietà e sostituzione tra IDE ed export sia tutt’altro che chiuso, si può ragionevolmente affermare che forme più evolute di internazionalizzazione siano strettamente collegate alle performance e quindi alla competitività delle aziende: le imprese che conseguono processi di crescita sui mercati internazionali evidenziano livelli di produttività più alti rispetto alle imprese domestiche e il differenziale cresce ulteriormente per le imprese con investimenti diretti all’estero e per quelle che ricevono partecipazioni da parte di imprese o gruppi esteri.
Da un’analisi di SIMEST, la società che con SACE costituisce il Polo dell’export di CDP, emerge che le aziende che hanno effettuato investimenti diretti all’estero con SIMEST hanno registrato migliori performance rispetto alla media nazionale in termini di ricavi (x7), occupazione (x6) e valore aggiunto (+10% in media all’anno vs. -0,6% della media). Si stima, inoltre, che i fatturati prodotti all’estero dalle imprese target abbiano attivato produzione (e dunque fatturato) nei settori collegati in Italia pari a circa la stessa entità di quella da esse prodotte. In sostanza, perlomeno per le imprese supportate da SIMEST, risulta l’opposto di quanto spesso si teme a proposito di rischi di delocalizzazione produttiva: chi cresce all’estero continua a crescere anche in Italia e in misura maggiore rispetto alle altre imprese italiane, innescando peraltro un circolo virtuoso anche per l’economia del Paese.
Eppure l’Italia continua ad avere una propensione agli IDE di gran lunga inferiore nel confronto con le altre maggiori economie europee, contribuendo solo per il 5% ai flussi di investimenti in uscita dall’Ue. Questo gap si spiega in parte con la prevalenza di PMI nel tessuto produttivo italiano, che tendono a preferire forme di internazionalizzazione più leggere, e in parte con elementi di tipo “culturale” quali la limitata conoscenza delle istituzioni e dei servizi a supporto del sistema produttivo, la scarsa disponibilità delle imprese a fare sistema e la mancanza di strategie che vedano le grandi imprese investitrici fare da apripista nei mercati internazionali per le PMI dell’indotto, come già avviene in altri Paesi competitor dell’Italia.
Le imprese italiane che investono all’estero sono 14mila e sono presenti in 180 Paesi nel mondo, con una netta prevalenza di Ue e Stati Uniti. Tuttavia, secondo l’Investment Opportunity Index 2018 di SACE SIMEST, le maggiori opportunità per le imprese italiane investitrici sono in Cina (72/100) e in India (72), due Paesi dalle enormi potenzialità in cui gli investimenti italiani – in passato legati a strategie di riduzione dei costi di produzione – sono sempre più giustificati da logiche di presidio del mercato locale.
Tra le destinazioni più attrattive per gli IDE italiani, vi sono anche Vietnam (68) e Marocco (65), entrambi caratterizzati dalla presenza di industrie complementari e compatibili con quelle dell’Italia, che possono rappresentare basi produttive strategiche anche per le PMI. Interessanti opportunità di investimento, infine, in Messico (61), Emirati Arabi (61), Malaysia (61) e Indonesia (61), tutte economie in crescita con specializzazioni industriali complementari a quelle delle imprese italiane, soprattutto medie e grandi.
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