Ad aggravare la carenza di liquidità delle imprese causata dalla crisi sono state anche alcune scelte di Governo degli ultimi anni. Nel 2007, infatti, le aziende sono state sottoposte ad un significativo prelievo: la riforma del TFR ha sottratto alle casse aziendali un’importante forma di autofinanziamento al fine di rimpolpare quelle erariali.
A lungo andare, questa operazione ha rischiato di affamare le imprese più vulnerabili: in un mercato stabile che presenta un discreto andamento economico non risultano infatti particolari difficoltà nel reperire finanziamenti, ma quando invece questo comincia a oscillare, allora la difficoltà di credito aumentano.
Prova ne è la recente crisi economica: tra le sue ricadute, anche la “chiusura dei rubinetti” da parte di molte banche nei confronti delle imprese assetate di liquidità. Messe alle strette, molte sono stare costrette a dichiarare bancarotta.
Per fortuna la seconda riforma del TFR attuata nel 2012 non ha penalizzato ulteriormente le aziende, toccando soltanto la tassazione a carico dei lavoratori su trattamenti di fine rapporto e mandato di elevato ammontare:
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TFR in azienda
I fattori esterni che incidono sulle casse di un’azienda sono prevalentemente due: andamento del mercato e accesso al credito. Se le banche smettono di concedere prestiti, la mancanza di fonti interne per rimpolpare la liquidità genera effetti a catena, non ultimo il fallimento.
Sia chiaro: la motivazione a monte di un fallimento per mancanza di liquidità è anche da ricercarsi nelle scelte dell’imprenditore: se nel corso degli anni non è stato in grado di realizzare un indice di liquidità, l’azienda non riuscirà a superare congiunture economiche particolarmente negative.
Certo però, la riforma del TFR non ha aiutato di certo.
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Come si garantisce liquidità all’azienda? In generale, riducendo al minimo il periodo che va dalla consegna del prodotto finito all’incasso della fattura; allo stesso tempo, occorre aumentare il periodo che va dalla ricezione della materia prima al pagamento della fattura: in sostanza bisogna accorciare la durata dei crediti e allungare quella dei debiti, incrementando la giacenza media dei capitali in azienda.
Vediamo nella seconda parte del pezzo i vantaggi pratici per lavoratori e aziende nel lasciare il TFR presso il datore di lavoro, garantendogli un modo alternativo per contare su una certa liquidità.
Andiamo con ordine: nel 2007 è stato istituito per le aziende private con almeno cinquanta addetti il Fondo di Tesoreria, cassa destinata a raccogliere le quote di trattamento di fine rapporto di lavoro maturate dall’1 gennaio dell’anno in corso.
=>Calcola la retribuzione accantonabile del TFR
Per i dipendenti non cambia molto: è ancora possibile disporre il TFR al momento della cessazione del rapporto di lavoro o chiederne un’anticipazione nei casi previsti dalla legge (acquisto della prima casa, spese sanitarie, ecc.).
Chi invece sta pagando pesantemente questa scelta sono indubbiamente le imprese, poiché è stata revocata loro la facoltà di trattenere l’accantonamento TFR. E quindi di autofinanziarsi. Da quel momento, infatti, gli importi dell’accantonamento TFR vanno versati all’Inps e fatti confluire nell’apposito Fondo.
=>Leggi come funzionano accantonamento, rivalutazione e destinazione del TFR
I rapporti tra impresa e lavoratore, relativamente al TFR sono rimasti uguali: il lavoratore che necessita di un’anticipazione del TFR deve fare domanda al datore di lavoro il quale anticiperà quanto richiesto per recuperarlo successivamente dall’Inps.
Pur di mantenere il TFR in azienda, molte imprese hanno rivisto le proprie politiche di sviluppo. Immaginiamo il management di un’impresa con un numero dipendenti inferiore alle cinquanta unità, anche se di poco.
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Quanto interesse può manifestare l’imprenditore a incrementare il proprio personale sapendo che quella scelta determinerà l’inevitabile esodo di capitale verso le casse dell’Inps?
Con ragionevole certezza potremmo affermare che il risultato avrà un valore molto vicino allo zero.
Questa scelta di governo, quindi, non solo ha soppresso un’importante fonte di autofinanziamento ma ha ulteriormente penalizzato le imprese, con inevitabili risvolti anche sui lavoratori, poiché ha scoraggiato gli imprenditori nelle assunzioni del personale, limitando la crescita delle imprese entro i cinquanta dipendenti.