La manovra finanziaria 2011 non porterà l’Italia fuori dalla crisi: i tagli si traducono solo in minore crescita e, nel lungo periodo, in minori entrate fiscali. «Una inutile fatica di Sisifo», come rileva Sergio Cesaratto Ordinario di Economia all’Università di Siena, ponendo l’accento su quella che per gli economisti è la prima vera priorità del governo italiano: la crescita. Il presidente dell’università Bocconi, Mario Monti sottolinea la seconda: la competitività. Una recente analisi di Andrea Ricci, Mirella Damiani e Fabrizio Pompei su Lavoce.info evidenzia un terzo tassello: la flessibilità sul mercato del lavoro in Italia è un punto debole, in quanto il rallentamento della crescita sperimentata da molti paesi europei in questi anni è dovuta anche alla diffusione dei contratti a termine.
Manovra finanziaria
Scrive Sergio Cesaratto su Lettera 43: le manovre finanziarie estive (manovra finanziaria e manovra finanziaria bis) sono state non solo «inique, ma anche inutili». Il governo, e la politica italiana tutta, devono cambiare marcia. In Italia «un governo che avesse veramente a cuore» i destini del paese «dovrebbe contrattare a muso duro una politica europea più espansiva e un risoluto intervento della BCE» impegnandosi contemporaneamente a «stabilizzare il rapporto debito PIL (cosa diversa dalla riduzione), combattere l’evasione fiscale, imporre un’imposta sui grandi patrimoni e tagliare gli sprechi, inclusi quelli della politica, destinando i proventi alla riduzione del carico contributivo sul lavoro dipendente, a sollievo di salari e imprese, e all’istruzione che va massicciamente sostenuta». È anche vero che «il paese da solo non può farcela, e servirebbe un contesto europeo diverso da quello che individua nei soli tagli di bilancio la via d’uscita».
Il ruolo della BCE
Come detto, la ricetta applicata alla Grecia non funziona. Servirebbe, secondo l’economista, un intervento «forte e risoluto» della Banca Centrale Europea, utile a «tamponare la situazione e traquillizzare i mercati, almeno nei riguardi di Italia, Spagna e Belgio». Ma questo significa «che la Bce deve garantire in maniera assoluta i titoli del debito». Anche la banca centrale «è intervenuta tardi e senza risolutezza», anche «a causa dell’opposizione tedesca».
Gli Eurobond di cui tanto si discute, secondo Cesaratto «solo con la garanzia della BCE avrebbero successo». E ancora: la ricetta fino ad ora applicata andrebbe ribaltata: non bisogna chiedere ai paesi deboli di tagliar prezzi e salari ma, anzi, «far crescere i prezzi e i salari nei paesi forti», secondo una visione di stampo keynesiano.
Mercato del lavoro
Sulla questione salari, Ricci, Damiani e Pompei osservano che «a partire dalla metà degli anni Novanta la crescita della produttività nell’area euro si è quasi dimezzata» e ciò è avvenuto proprio quando nel periodo molti governi europei hanno attuato «riforme dirette ad accrescere la flessibilità del mercato del lavoro»; riforme «realizzate al “margine”, ovvero riducendo le garanzie a protezione dell’impiego dei lavori a termine, mantenendo invece sostanzialmente inalterate quelle relative ai contratti regolari. E il risultato è stato una grande diffusione dei contratti a termine nel periodo 1995-2007».
Contratti a termine
Il caso italiano viene ritenuto emblematico, perchè è il paese in cui «sono stati realizzati i cambiamenti legislativi più forti». L’indicatore OCSE sul grado di protezione dei contratti a termine su una scala da 1 a 6 è sceso in Italia di 3,5 punti dal ’95 al 2007, contro una flessione media di soli 0,45 punti negli altri 14 pesi europei. Gli economisti calcolano che «se non ci fosse stata la riduzione delle protezioni sui contratti a termine, la crescita cumulata negli anni 1995-2007 della Ptf (Produttività totale dei fattori) del Terziario avanzato e dei Servizi alle imprese, rispetto a quella della Manifattura, sarebbe stata superiore di oltre 7 punti percentuali a quanto avvenuto in realtà».
L’effetto negativo dell’eccessivo uso dei contratti a termine, scrivono Ricci, Damiani e Pompei, prevale in economie come quella italiana, dove «le imprese sono specializzate in settori tradizionali e impiegano tecnologie e organizzazioni gestionali mature, » e il ricorso al lavoro temporaneo «come opzione per ridurre il costo del lavoro, rischia di ritardare gli investimenti in innovazione e in competenze, e dunque frena le potenzialità di crescita produttiva».
Trattasi di una questione con una serie di importanti riflessi di politica economica, sottolineati ad esempio dal Governatore di Bankitalia, futuro presidente della BCE, Mario Draghi (lezione magistrale all’Università di Ancona del novembre 2010): «senza la prospettiva di una pur graduale stabilizzazione dei rapporti di lavoro precari, si indebolisce l’accumulazione di capitale umano specifico, con effetti alla lunga negativi su produttività e profittabilità».
Crescita
In ultima analisi, la crisi italiana si lega a doppio filo con la crisi del debito europea. Ma l’Europa ha affrontato la situazione in modo inefficace, con ritardi che ora stanno generando il temuto effetto domino, « come dimostra il caso greco, e ormai anche quello italiano.
Per questo gli economisti avvertono: innanzitutto bisogna salvare la Grecia, contestualmente, i paesi Ue devono mettere la crescita al centro del dibattito, e non più i tagli cone ha fatto l’Italia con la manovra finanziaria 2011.