Start-up e investitori: la ricerca di capitale di rischio in Italia

di Fabrizio Scatena

Pubblicato 9 Maggio 2011
Aggiornato 16 Agosto 2021 06:44

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Scenario italiano su imprese e ricerca di capitali, tra venture capital e business angel: intervista ad Alberto Onetti (Mind The Bridge).

L’imprenditore si trova spesso in difficoltà quando cerca di reperire le risorse necessarie per far decollare la sua idea progettuale e farne un business prospero. In Italia, trovare investitori pronti ad accollarsi rischi è il problema maggiore, a differenza di Paesi come Stati Uniti e Inghilterra, soprattutto senza un patrimonio personale di partenza. Come possono allora ottenere la necessaria spinta finanziaria le start-up innovative che promettono forti prospettive di crescita?

Ne abbiamo parlato con Alberto Onetti, Presidente Mind The Bridge Foundation e Professore di Economia presso l’Università dell’Insubria; vero e proprio esperto dell’argomento.

1.In che fase si trova il sistema degli investitori in Italia?

Per quanto riguarda gli investimenti in capitale di rischio delle aziende, mentre c’è una certa massa critica di investimenti in imprese di medie e grandi dimensioni (“private equity“), sulle imprese start-up (il “venture capital” vero e proprio) sono ancora modesti: in Italia si investono meno di duecento milioni di dollari l’anno, contro il miliardo abbondante di Francia e Germania.

Però, va detto, che i capitali investiti e il numero delle imprese finanziate stanno crescendo in parallelo con il numero degli operatori presenti sul mercato. Quindi, in Italia abbiamo un sistema ancora in fase embrionale, ma in crescita.

2.Spesso c’è confusione tra le varie forme di finanziamento: che differenza c’è tra capitale bancario e capitale di rischio?

Si sentono spesso lamentele circa il fatto che le banche non finanziano imprese giovani e start-up. Nella realtà, la critica è ingiustificata perchè non rientra tra i loro compiti finanziare business nelle fasi iniziali, senza prospettive di ritorni economici immediati. All’avvio le start-up anno bisogno di capitale di rischio e non capitale di debito, quindi sono un cattivo match per le banche, almeno per quelle commerciali che sono specializzate sul fronte del debito.

Il capitale di rischio deve invece venire da investitori specializzati che sono i venture capital.

3.Che differenza c’è fra Venture Capital e Business Angel?

Entrambi portano capitale di rischio. I Venture Capital di solito intervengono in fasi più avanzate con investimenti superiori, mentre i Business Angel fanno investimenti nelle primissime fasi del ciclo di vita dell’impresa. I loro investimenti sono per questo chiamati “seed“, in quanto apportano anche un contributo di esperienza manageriale e di supporto commerciale. Oltre che investitori sono mentori.

4.In Italia esistono Business Angels?

Sì, e sono abbastanza attivi. Alcuni sono strutturati in associazioni quali IAG (Italian Angles for Growth) e IBAN (Italian Business Angel Network), altri agiscono in modo isolato.

È anche vero che il potenziale per investimenti su start-up e in capitale di rischio è in genere decisamente molto più alto. Basti pensare a quanti soldi sono investiti e continuano ad essere investiti nel comparto immobiliare… non è solo un problema di capitali.

5. Dove si annida dunque il problema?

Un problema di certo è la mentalità: in Italia c’è una limitata propensione al rischio, che si traduce da un lato in pochi capitali disponibili per gli investimenti, dall’altro in progetti di investimento poco ambiziosi, un po’ con il freno a mano tirato.

6.Quanto conta un business plan ben scritto per convincere un investitore?

Conta: il business plan è la carta d’identità di una idea di business. Visto che nelle fasi iniziali c’è poco o nulla da presentare al di là della semplice idea, saperla strutturare e presentare in modo convincente e concreto è abbastanza importante.

7.Nella sua attività avrà letto numerosi business plan di imprenditori italiani. Che idea si è fatto?

La sensazione è che ci sia un trend di deciso miglioramento, sia in termini di numero (a livello personale ricevo più di un business plan alla settimana; come Mind the Bridge il numero di application alla nostra “Business Plan Competition” raddoppia di anno in anno, quindi mi sembra ci sia una crescente vitalità in Italia sul fronte dell’innovazione) che di qualità (segno che le competenze si stanno diffondendo).

In genere, i progetti restano poco ambiziosi e hanno un taglio troppo tecnologico e poco orientato agli aspetti di business e di mercato. Su questo fronte c’è da fare dei decisi passi avanti.

Per questa estate Mind the Bridge ha avviato una Summer School dedicata ad aspiranti imprenditori, ricercatori che vogliono avviare uno spinoff, etc.: tre settimane per prendere confidenza su come fare un business plan e sul mondo delle start-up.

8. Qual è il livello di integrazione fra università e impresa?

Ancora limitato, sono due mondi ancora troppo distanti, ancora una volta per motivi di mentalità. Ma anche qui ci sono segnali incoraggianti: negli ultimi anni, dalle nostre università originano in media un centinaio di spin-off l’anno.

Però pochi tra questi riescono a crescere, strutturarsi e diventare realtà importanti. Anche su questo fronte c’è quindi ancora molto da fare, ma anche qui io vedo il bicchiere mezzo pieno: c’è della materia prima (idee e start-up) su cui lavorare.

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Per approfondimenti: Mindthebridge.org