La nostra Costituzione non concede particolare tutela alla concorrenza tra imprenditori, limitandosi a garantire la libertà di iniziativa economica (art. 41, comma 1). È stata la Comunità Europea ad esaltare il concetto di libertà di concorrenza attraverso il suo valore sociale, poiché da un lato garantisce ai consumatori migliori condizioni di prezzo e qualità, dall’altro incentiva l’efficienza produttiva delle imprese.
Per tale ragione, l’Unione Europea si è fornita di una attenta legislazione che mira a preservare il regime concorrenziale del mercato comunitario e a reprimere le pratiche anti-concorrenziali che pregiudicano il commercio tra gli Stati membri.
=> Concorrenza: ecco le nuove sanzioni Antitrust
Concorrenza sleale
Sulla spinta tale disciplina il legislatore italiano, con la legge n. 287 del 1990, si è dotato di una propria normativa antitrust volta a preservare la libertà di concorrenza sul mercato nazionale istituendo l’AGCM (Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato): organo di controllo nazionale e garante delle norme comunitarie, tutela la libertà di concorrenza nel mercato italiano. L’antitrust si attiva in caso di:
- intese restrittive della concorrenza – accordi e/o pratiche tra imprese che, ad esempio, fissando i prezzi di acquisto o di vendita o altre condizioni contrattuali, abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza all’interno del mercato nazionale o in una sua parte;
- abuso di posizione dominante – condotta delle imprese che, trovandosi nella condizione di esercitare un’influenza preponderante su un determinato mercato e di poter agire senza dover tener conto delle reazioni dei concorrenti, la sfrutti al punto da pregiudicare l’effettiva concorrenzialità del mercato nazionale o di una parte rilevante di esso;
- operazioni di concentrazione restrittive della libertà di concorrenza – fusioni tra società, acquisto da parte di un’impresa del controllo di un’altra, costituzione in comune di nuove società.
=> Pubblicità ingannevole: nuove regole
Pubblicità ingannevole
Il dlgs n.145 del 2007 – dopo aver chiarito che per pubblicità deve intendersi qualsiasi forma di messaggio che è diffuso, in qualsiasi modo, nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale, artigianale o professionale allo scopo di promuovere il trasferimento di beni mobili o immobili, la prestazione di opere o di servizi oppure la costituzione o il trasferimento di diritti ed obblighi sugli stessi – enuncia il principio generale secondo cui la pubblicità deve essere palese, veritiera e corretta.
In primo luogo, dunque, la pubblicità deve essere chiaramente riconoscibile come tale: da ciò consegue non solo il divieto di qualsiasi forma di pubblicità subliminale ma anche l’obbligo che la pubblicità a mezzo stampa sia distinguibile dalle altre forme di comunicazione al pubblico, con modalità grafiche di evidente percezione.
In secondo luogo, è vietata la cosiddetta pubblicità ingannevole, ossia quella che in qualunque modo, compresa la sua prestazione, sia idonea a indurre in errore i soggetti a cui è rivolta o che essa raggiunge e, dall’altro lato che, a causa di tale carattere, possa pregiudicare il comportamento economico di detti soggetti, ovvero, per questo motivo, sia idoneo a ledere un concorrente.
La pubblicità comparativa – che identifica in modo esplicito o implicito un concorrente o i beni o/o servizi da quest’ultimo offerti – è consentita solo nel rispetto delle condizioni indicate dal decreto legislativo.
Se il ricorso ad atti di pubblicità ingannevole o comparativa illecita integra gli estremi della concorrenza sleale, allora il concorrente potrà richiedere al giudice l’applicazione delle tutele indicate dagli artt. 2599 («la sentenza che accerta atti di concorrenza sleale ne inibisce la continuazione e da gli opportuni provvedimenti affinchè ne vengano eliminati gli effetti») e 2600 c.c. («se gli atti di concorrenza sleale sono compiuti con dolo o con colpa, l’autore è tenuto al risarcimento dei danni»).
L’AGCM ha potere di impedire o bloccare la continuazione di tali atti illeciti su segnalazione di qualunque interessato (concorrenti, consumatori e loro associazioni, pubbliche amministrazioni, ect.), applicando agli autori sanzioni amministrative pecuniarie, e ottenendo dal responsabile l’impegno a porre fine alla infrazione.
Codice di Autodisciplina e del Consumo
Dal canto loro, molti operatori della Pubblicità commerciale (aziende che investono in pubblicità, agenzie, concessionarie, consulenti pubblicitari, mezzi di diffusione della pubblicità) hanno dato autonomamente vita ad un sistema di autodisciplina pubblicitaria: chi vi aderisce, su base contrattuale è vincolato al rispetto di un codice e li assoggetta alle decisione di un organo denominato Giurì.
Occorre precisare una cosa: se è vero che un’altra cosa: se è vero che un messaggio pubblicitario deve rispettare i parametri fissati dal decreto legislativo a tutela degli imprenditori concorrenti, è anche vero che deve rispettare i parametri del Codice del consumo a tutela di consumatori e utenti, volti a evitare la pratica commerciale scorretta, vietata e sanzionata dallo stesso Codice.
=> Parlamento Europeo, no a pratiche commerciali sleali per le Pmi
Pratiche scorrette
Quali sono dunque i casi in cui un imprenditore, che si senta oggetto di un atto di concorrenza sleale, può appellarsi alla legge per tutelarsi?
Quelli previsti dall’articolo 2598 c.c., che definisce come atto di concorrenza sleale l’ipotesi in cui un imprenditore:
- usi nomi o segni distintivi legittimamente usati da altri;
- imiti in modo servile i prodotti di un concorrente;
- compia atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l’attività di un concorrente;
- denigri l’impresa o i prodotti altrui; e) si appropri, attribuendoli ai propri prodotti o alla propria impresa, di pregi di prodotti o dell’impresa di un concorrente.
Tutele previste
Più in generale, è considerato sleale qualunque uso, diretto o indiretto, di mezzi non conformi ai principi della correttezza professionale ed idonei a danneggiare l’altrui azienda.
La tutela di cui gode l’imprenditore pregiudicato dal comportamento sleale del concorrente è duplice.
Da un lato, può chiedere al giudice di inibire la continuazione degli atti di concorrenza e di dare gli opportuni provvedimenti affinchè ne vengano eliminati gli effetti. Per ottenere questa tutela non sono necessari né il dolo né la colpa del concorrente.
=> Libro Bianco UE tutela aziende e consumatori
Dall’altro può chiedere e ottenere il risarcimento del danno, in base ai principi generali di responsabilità per atto illecito, purchè concorra il requisito soggettivo della colpa o del dolo del concorrente.
Tuttavia, per agevolare chi subisce un atto di concorrenza sleale, il legislatore stabilisce che, accertati gli atti di concorrenza, la colpa si presume. Si tratta di una presunzione iuris tantum: l’autore dell’atto di concorrenza sleale potrà sempre provare di avere agito senza colpa (ad esempio dimostrando che non sapeva di usare un nome o un segno atto ad ingenerare confusione con il nome o il segno già usato da altra impresa).