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Pubblicità Internet nel caos: punti deboli della Web Tax

di Alessandro Longo

Pubblicato 19 Dicembre 2013
Aggiornato 21 Dicembre 2013 19:04

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Le aziende italiane non potranno più comprare pubblicità su Google o Facebook senza violare la nuova norma: i punti critici della Web Tax sotto la lente di Guido Scorza e degli altri esperti di settore.

Il mercato italiano della pubblicità digitale sta per essere gettato nel caos dalla Web Tax, già ribattezzata “Spot Tax” (perché il nuovo testo nella Legge di Stabilità – che marcia verso l’approvazione definitiva con voto di fiducia – è stato privato delle parti relative al commercio elettronico). Per l’Advertising Online ci saranno effetti a catena, ora anche poco prevedibili: tutto dipenderà da come reagiranno i giganti come Facebook e Google; comunque, almeno nella prima fase – se la norma passerà così com’è – qualunque azienda italiana si troverà nel dilemma: come comprare annunci e link sponsorizzati su grandi network senza violare la legge?

Acquisto Web ADV

E’ questo il nodo, finora poco esplorato, secondo i principali esperti della questione. Concordano – intervistati da PMI.it – Guido Scorza, avvocato specializzato, e una nota società di consulenza che ha preferito restare anonima. Vediamo il testo, che si compone principalmente di due commi:“I soggetti passivi che intendano acquistare servizi di pubblicità e link sponsorizzati online anche attraverso centri media ed operatori terzi sono obbligati ad acquistarli da soggetti titolari di una partita IVA italiana” e “gli spazi pubblicitari online e i link sponsorizzati che appaiono sulle pagine dei risultati dei motori di ricerca (…), visualizzabili sul territorio italiano durante la visita di un sito o la fruizione di un servizio online (…) devono essere acquistati esclusivamente attraverso soggetti quali editori, concessionarie pubblicitarie, motori di ricerca o altro operatore pubblicitario, titolari di partita IVA italiana”.

Tracciamento profitti ADV

C’è poi un altro articolo, che è subordinato a quanto sopra e che è solo un modo per aumentare la tracciabilità del fatturato e quindi stringere la certezza del Fisco sulle aziende straniere, togliendo loro ogni scappatoia: “le società che operano nel settore della raccolta di pubblicità online e dei servizi ad essa ausiliari sono tenute a utilizzare indicatori di profitto diversi da quelli applicabili ai costi sostenuti per lo svolgimento della propria attività (…). L’acquisto di servizi di pubblicità online e di servizi ad essa ausiliari deve essere effettuato esclusivamente mediante bonifico bancario o postale dal quale devono risultare anche i dati identificativi del beneficiario, ovvero con altri strumenti di pagamento idonei a consentire la piena tracciabilità delle operazioni e a veicolare la partita IVA del beneficiario. Con provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate, sentite le associazioni di categoria degli operatori finanziari, sono stabilite le modalità di trasmissione all’Agenzia delle Entrate, in via telematica, delle informazioni necessarie per l’effettuazione dei controlli”.

Conformità e sanzioni

Il primo impatto quindi, comporterà il caos. Finché questa norma non sarà adottata dai principali network (a patto che lo sia…), le aziende italiane (i “soggetti passivi”) «inevitabilmente si troveranno a comprare pubblicità fuorilegge. Perché continueranno a usare Google e Facebook. Per questi, infatti, ci vorrebbero comunque mesi per decidere il da farsi, aprire partita IVA e cambiare il proprio sistema di fatturazione», dice Scorza. «E tuttavia la legge non prevede sanzione per le aziende che comprano pubblicità da soggetti senza partita IVA italiana. Potrebbero quindi anche ignorarla. Non si sa quindi il vero impatto possibile», aggiunge.

Dubbi interpretativi

I due commi di cui sopra inoltre sono di equivoca lettura. Il primo si riferisce a qualsiasi azienda italiana che compra qualsiasi pubblicità online, da qualunque soggetto o intermediario. Il secondo comma invece restringe il campo alla sola pubblicità visibile su territorio italiano. In teoria significa che un’azienda italiana può comprare pubblicità su un motore di ricerca russo o cinese per vendere i propri prodotti in quei Paesi, senza curarsi che quelli abbiano partita IVA. In pratica sappiamo però che, per come funziona Internet, la pubblicità presente su siti esteri è comunque visibile anche dal territorio italiano, a meno di specifici filtri che le piattaforme dovrebbero attivare.

Altra complicazione: «se una campagna pubblicitaria riguarda diversi Paesi europei, il portale o il centro media forse dovrebbe fatturare con partita Iva italiana solo ciò che riguarda gli utenti italiani…ma al momento le piattaforme pubblicitarie non fanno queste distinzioni in base alla provenienza del click», dice Scorza.

Altre incognite sorgono qualora i big decidessero di non adeguarsi e smettere di offrire pubblicità in Italia, con grosso danno per tutte e PMI che, per la propria promozione, traggono vantaggi dalla convenienza e dall’efficacia dei network Google e Facebook. Chissà se, a quel punto, i big permetterebbero alle aziende di comprare pubblicità almeno per un’audience estera. Potrebbero persino chiudere le porte del tutto alle nostre aziende, con danno quindi alla loro internazionalizzazione.

Almeno è scomparso l’obbligo di avere partita IVA per vendere prodotti online in Italia. Avrebbe costretto le miriadi di soggetti che si appoggiano ad Amazon e eBay a chiudere le porte ai consumatori italiani. Ne poteva venire anche un danno per le nostre aziende che fanno e-Commerce internazionale se, per un principio di reciprocità, altri Paesi avessero imposto loro l’apertura di una posizione fiscale.